giovedì 17 marzo 2011

DALL’UNITA’ D’ITALIA AL BANDITISMO, ALLE MAFIE

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di Marilena Spataro

Conquistare con il ferro e con il fuoco il Regno delle Due Sicilie, ricorrendo a un metodico quanto brutale saccheggio del suo territorio e delle sue risorse economiche e umane, come hanno fatto i Savoia in nome dell’unità nazionale, non ha portato fortuna all’Italia. Le conseguenze di questa scelta militare scellerata e delle politiche post unitarie messe in atto dai piemontesi, hanno dato vita a una questione meridionale rimasta irrisolta per cento cinquanta anni, tanto è, infatti, il tempo passato dall’unità ad oggi. Pensare di risolvere un così grave problema con interventi straordinari o esclusivamente a carattere assistenziale, attraverso l’istituzione di enti vari, in primis la Cassa del Mezzogiorno, come ha fatto la classe politica della prima Repubblica, o pensare che varando un sistema di federalismo fiscale che responsabilizzi gli amministratori locali nella spesa pubblica, quindi anche quelli del Meridione, come tenta di fare l’attuale Governo, in perfetta sintonia con le richieste leghiste, senza analizzare a fondo le cause che hanno portato al gap economico e sociale tra Nord e Sud, significa semplicemente seguire delle cure palliative che lasciano il tempo che trovano, non certo provvedere con efficacia e determinazione a dare risposte adeguate a una situazione sempre più drammatica, la quale, nella sua marcescenza, rischia di travolgere l’intero sistema paese. Aver abbandonato un territorio a se stesso e alla sua miseria dopo averlo depredato di tutto, ha prodotto, tra l’altro, un terreno di fertilissima coltura per fenomeni di grande pericolosità sociale, quali brigantaggio prima, mafie poi. Tutto ciò è intuibile da chiunque abbia il buon senso e, soprattutto, la buonafede di guardare alle vicende storiche e ai relativi fenomeni socio economici con rigore e serietà da studioso (il che, forse è un po’ difficile per coloro che non abbiano bazzicato più di tanto le aule universitarie, fermandosi alle analisi superficiali dei libri di storia delle elementari o di qualche autore del passato o anche di qualche autore più recente, ma volutamente cieco nel suo essere organico a un certo pensiero e a certi interessi che arrivano dal Nord), ed è quanto veniva puntualmente sottolineato, fin dagli inizi del ’900, dalle lucide analisi di meridionalisti del calibro di Labriola, Salvemini e Gramsci, intellettuali che avevano a cuore la soluzione dei problemi del Sud in funzione ed in nome dell’interesse dell’intera Nazione, non certo sospetti di stare dall’una piuttosto che dell’altra parte di essa. Al riguardo Antonio Gramsci affermava: «Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti». In realtà dopo questa prima fase cui fa riferimento lo studioso e politico sardo, al Sud si assiste a fenomeni di brigantaggio diffuso di sempre maggiore pericolosità sociale. Altrove, gli episodi di banditismo, che pure esistevano, rimarranno circoscritti nell’ambito della delinquenza comune o al massimo della lotta di qualche nobile in rivolta contro i poteri ufficiali di turno, senza mai, però, trasformarsi in forme di brigantaggio organizzato come quelle instauratesi in Meridione. Così è stato, ad esempio in Romagna, dove il banditismo si manifesta già nel ’500 a opera di un nutrito manipolo di malfattori toscani, romagnoli e marchigiani, che scorazzavano ai confine fra la Romagna toscana e quella pontificia, capeggiati dal Duca di Montemariano, Alfonso Piccolomini, il quale, però, più che da spirito di banditismo comune era mosso da sentimenti di ribellione contro i poteri costituiti del tempo. Sarà, piuttosto, durante tutto l’800 che nell’area romagnola si assiste a un fenomeno di criminalità a carattere banditesco di un certo peso, con la presenza di personaggi d’insolita ferocia e senza scrupoli, quali, ad esempio, Stefano Pelloni, di Boncellino di Bagnacavallo, meglio conosciuto come il “Passator cortese" in seguito a una ingiustificata fama popolare che lo trasformava in una specie di Robin Hood. In queste zone, come pure nelle altre regioni centro settentrionali, il banditismo, verrà definitivamente estirpato proprio in coincidenza dell’unità d’Italia: l’azione militare di un esercito ormai moderno e organizzato e, soprattutto, le politiche di crescita economica e sociale messe in atto dai nuovi governanti, furono le armi vincenti nel determinane la sconfitta. Nel Meridione, invece, la repressione generalizzata e di massa dell’esercito sabaudo e dei garibaldini durante la guerra contro il Regno delle Due Sicilie e il totale disinteresse delle nuove classi dirigenti per il territorio e per le popolazioni del Mezzogiorno, contribuiranno non solo ad acuire il fenomeno del brigantaggio, ma a farlo diventare l’anticamera di un ben più insidioso fenomeno delinquenziale, quello delle mafie. Queste di lì a poco si sarebbero irrimediabilmente insediate pressoché in tutto il Sud, radicandosi particolarmente in Campania, Calabria e Sicilia. Qui, a fronte di una società in completa dissoluzione e di una popolazione disperata e sbandata, contro cui lo stato unitario continuava ad agire con metodica brutalità al fine di privarla di ogni identità culturale e delle proprie tradizioni, persino di quelle religiose, si assiste a una strana combine d’interessi tra alcune figure del brigantaggio e della malavita organizzata e alcune, vecchie e nuove, classi sociali locali. Per servire il proprio tornaconto, tutti questi attori sociali si compatteranno, più o meno consapevolmente, dirigendo la propria azione a favore degli interessi del Nord, a tutto svantaggio di quelli del loro territorio. Il vecchio era rappresentato dai soliti personaggi gattopardeschi, nobili e latifondisti famelici, da sempre avidamente attaccati ai propri egoismi e privilegi; le loro famiglie fin dall’epoca delle conquiste napoleoniche si andavano alleando ora con l’una ora con l’altra parte politica a secondo di chi stesse vincendo, perciò, una volta erano borbonici, la volta successiva di fede liberale. Questi notabili erano avvezzi ad agire nell’ombra e con l’insidia per favorire il proprio interesse, ingaggiando personaggi senza scrupoli, spesso briganti promossi a mezzadri, per mantenere con metodi di sopraffazione violenta in stato di schiavitù chi lavorava per loro. Il nuovo era rappresentato da antichi mezzadri, che, con l’aria diversa che tirava, puntavano a conquistare autonomia e potere rispetto ai loro padroni. C’erano poi altre figure emergenti della borghesia: piccoli proprietari terrieri con l’aspirazione di mettere le mani su altri appezzamenti, soprattutto del demanio, famiglie di artigiani, molte delle quali sinceramente liberali e che, avendo spesso pagato con un ampio tributo di sangue la loro fede, ora erano ansiose d’incassare dai piemontesi al governo un qualche riconoscimento per la fedeltà dimostrata. C’era, infine, una varietà di impiegati e di piccoli burocrati il cui principale interesse, era, come per la nobiltà e per i vecchi ricchi, mantenere, e, magari, ampliare i propri privilegi. L’azione combinata di questi nuovi e vecchi ceti sociali, che ben presto sarebbero diventati dominanti nella gestione della politica e dell’economia del Sud post unitario, generò nel popolo, grazie al continuo esercizio del sopruso, della sopraffazione, e soprattutto dell’inganno e del ricatto, un senso di precarietà permanente e di bisogno continuo. Malaffare, corruzione, intrigo, illegalità a tutti i livelli, è stato l’unico esempio fornito nel tempo da quella “leadership” alle classi popolari, che ormai prive di punti di riferimento e anche delle migliori forze produttive, visto che gli uomini più giovani erano emigrati in massa in cerca di lavoro, sfiduciate e stremate, vedevano in questi comportamenti la norma cui adeguarsi. E’ in tale contesto, di totale sfascio morale, che in Campania, Calabria e Sicilia, nascono, come già detto, le mafie, diffondendosi poi in quasi tutto il Sud. Non è casuale che i primi documenti sui rituali mafiosi risalgano alla fine dell’800. Le mafie, si sa, sono associazioni a delinquere segrete che hanno come unico fine il profitto e l’interesse dei propri affiliati e delle loro famiglie. Codici d’onore, cerimonie d’iniziazione improntate a rituali su Santi o Arcangeli o leggende secondo cui i capi di queste organizzazioni agivano per il bene comune, erano espedienti architettati per ottenere consenso dalla gente e obbedienza da parte dei propri affiliati, soprattutto della manovalanza, i cosiddetti picciotti. L’interesse dei mafiosi era allora, come lo è oggi, quello di arricchirsi illecitamente, servendosi del crimine e dell’assassinio, a spese dei più deboli. Il medesimo interesse, allora, come ora, dei politici e delle classi dirigenti del Sud. E ormai non solo del Sud. Logiche ed interessi che di fatto coincidono e che con il tempo si intrecciano e si accavallano, identificandosi sempre più spesso sia nella brutalità dei metodi sia negli uomini, in un esercizio arbitrario e cieco del potere, che disprezza ogni legalità, diritto altrui e regola democratica. Accade così che nella fase post unitaria parecchi briganti, fattisi tali per ribellione o per sopravivenza, si trasformino in uomini di fiducia di latifondisti ed agrari, addetti a mantenere l’ordine tra i lavoratori con la violenza e la sopraffazione. E accade così che molti briganti si trasformino in mafiosi. Esemplare, al riguardo, il caso di Salvatore Giuliano, che con la strage di Portella della Ginestra, si pone non più da bandito, quale era stato fino ad allora, ma da mafioso al soldo del latifondo. E Dio solo sa di quale altro oscuro potere. Con l’avvento della Repubblica e il lento instaurarsi di un sistema partitico corrotto, clientelare e di malaffare consociativo tra i
vari partiti dell’arco costituzionale, scopriremo che, in omaggio a questo vecchio schema, i mafiosi possono fare i politici e che i politici possono tranquillamente essere dei mafiosi. Oggi, in piena seconda Repubblica, apprendiamo che a 150 anni dalla sua nascita, l’Italia è unita sì, ma solo nelle mafie. Per il resto la spaccatura tra le due, forse anche tre, Italie, visto che il Centro sembra muoversi sempre più sulla base di istanze e d’interessi autonomi, è ormai in atto. Alla Lega Nord va riconosciuto il merito di aver posto con vigore, seppure a volte con toni eccessivi e persino folcloristici, l’accento sulle contraddizioni su cui si reggeva da un secolo e mezzo un sistema unitario nato dalla cattiva coscienza di chi lo ha voluto e dall’ipocrisia di chi, successivamente, lo ha sostenuto, ostinandosi a tenere unito ciò che di fatto, da sempre, era disunito. La disparità economica e sociale tra Settentrione e Meridione emersa durante e dopo il processo unitario col tempo si è acuita, fino ad apparire insanabile, così come sta accadendo oggi, dove al risentimento del Sud che si percepisce trattato da straccione, fa eco un’insofferenza, a volte persino un disprezzo razzista, di un Nord che si sente oltremodo sfruttato. Tutto ciò in un’interminabile polemica sulle reciproche responsabilità. Fino a qualche anno fa il Nord, infatti, appariva rassegnato a erogare all’infinito parte delle sue risorse finanziarie per il “mantenimento” sic et simpliciter del Sud, mentre il Sud si adeguava a questa logica. Ma oggi non è più così. In Settentrione si sta diffondendo, infatti, l’idea di un Meridione cialtrone e sfruttatore che, perciò, andrebbe lasciato al suo destino, parimenti in Meridione si percepisce fastidio per un Settentrione considerato opportunista nel suo assistenzialismo, in quanto, si rimprovera, il meccanismo assistenziale è stato determinante nel condannare il territorio meridionale all’emarginante ruolo di risorsa di manodopera per le aziende del nord, di bacino per il consumo dei beni da queste prodotte e di discarica dei loro rifiuti più tossici e velenosi. Tutti questi discorsi hanno portato da parte meridionale a un rivendicazionismo esasperato e qualunquista in nome del “mal tolto” e da parte settentrionale a vocazioni autonomiste che, se spinte all’estremo, rischiano di trasformarsi in pericolose tentazioni secessioniste. Come è noto il secessionismo è un tema molto caro al leader del Carroccio, Umberto Bossi, che vi ricorre tutte le volte in cui gli serve scaldare gli animi di quella parte di elettorato leghista più esigente in fatto di antimeridionalismo. Ma, alimentare l’odio non giova a nessuno; se qualcuno si illude del contrario per posizioni di comodo o interessi di bottega, pecca di scarsa lungimiranza. Peraltro, ignorare il problema, come fa l’attuale classe politica, che si nasconde dietro una futura, e altrettanto vaga, riforma sul federalismo fiscale, contrabbandandola come la panacea capace di sanare ogni male, è ugualmente pericoloso. Continuare con gli interventi straordinari al Sud, magari attraverso l’istituzione di una banca ad hoc, come ipotizzato dall’attuale Governo, significa, infatti, continuare a nutrire un sistema di clientele politiche, di malaffare economico – finanziario, di malgoverno e di mafie, le quali, come evidenziano le inchieste giudiziarie in corso sull’Expo 2015 di Milano, non solo non si sono fermate ai territori meridionali, ma hanno allungato i propri tentacoli con prepotenza pervasiva sul resto del territorio nazionale. La questione meridionale e la questione morale in Italia viaggiano di pari passo. Risolvere l’una, significa dare automaticamente risposte anche all’altra. A tal fine occorre individuare una classe politica nuova, lontana da qualunque altro potere, che non sia quello conferito con mandato democratico dai cittadini, capace di porre mano responsabilmente a una riforma istituzionale di ampia portata che dia concreta attuazione a quelle istanze di vero federalismo che ultimamente giungono dalla parte più consapevole del Nord così come da quella più matura e identitaria del Sud, che pure esiste e che va emergendo, in uno scatto di orgoglio e di dignità ritrovata, con grande forza. Messi insieme, questi elementi non fanno che segnalare con chiarezza un clima e una volontà inediti, e provenienti dal “basso”, tendenti a obiettivi di democrazia, di libertà e di uguaglianza, quali valori fondati sul rispetto delle differenti identità dei territori e dei loro cittadini, il che, se tenuto per buono, fornirebbe il sentiero a chi ci governa per unire in concreto quello che, invece, a causa dell’arroganza sabauda, della forza bruta del suo esercito e di un indefinito, quanto insincero, senso di identità nazionale, è rimasto per 150 anni un atto unitario formale, valido esclusivamente sulla carta.

Copertina del libro Terroni di Pino Aprile
 Copertina del libro "Terroni" di Pino Aprile

Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero 6 di "ALI", rivista letteraria diretta dallo scrittore, poeta e teorico dell'arte, Gian Ruggero Manzoni

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