lunedì 25 aprile 2011

INTERVISTA A MARIO ZANONI (inedita)


Pan, scultura in terracotta dipinta



Lo scultore che narra le 'origini'
dando forma al mito

di Marilena Spataro




E' arrivato alla scultura a quasi quarant'anni. Non se ne è più distaccato. A familiarizzare con l'arte, Mario Zanoni ha cominciato che era giovanissimo, prima come musicista in una band che faceva il rock, un genere musicale che andava per la maggiore negli anni '60-'70, poi come coreografo e attore nel teatro sperimentale. Ma tutto questo, probabilmente, non gli bastava. La sua vena creativa aveva bisogno di spaziare trovando forme espressive altre, forme che fossero più aderenti alla sua indole di artigiano, di maestro del fare più che di interprete di lavori altrui. Questo sentire profondo lo ha portato a esplorare campi artistici a lui ignoti, facendolo, infine, felicemente approdare nel mondo delle arti figurative. “La musica non ha forma perché è un’emozione. Fare musica per il teatro mi avvicinò alla forma mantenendomi al contempo vicino al ritmo. E' così che ho capito che la scultura deve danzare o anticipare il movimento o mantenerlo segreto, facendolo, però, percepire: l’opera, anche se di pietra, non deve essere ‘pietrificata’” spiega lo stesso artista. Che qui svela il percorso lungo il quale si snodano le tappe dell'anima prima di arrivare a dare forma artistica all'idea.




Fin dal suo esordio come scultore, lei è stato considerato dalla critica un gotico. Si riconosce in questa lettura?

Nell’intervista l’intervistato è costretto ad intervistare se stesso. Ne scaturisce una verità per l’intervistatore ed una per se stessi. Quindi, due menzogne? No, due verità creativamente diverse.
La mente non segue il percorso del navigatore satellitare, esce spesso dalla via maestra per
curiosare tra i sentieri nascosti, la classicità nell’arte è la via maestra, io esploro sentieri aspri e sconosciuti camminando all’indietro, racconto le mie visioni da naufrago della civiltà industriale
terrorizzato dal cosiddetto ‘progresso’. Le mani modellano la terra alzandola verso il cielo in una tensione eternamente inappagata poiché spirito e materia sono la stessa cosa. Essere definito gotico mi fa pensare all’artigiano del passato remoto che vorrei essere”.

 Dal punto di vista della poetica quali sono i suoi riferimenti storico - culturali?


“Se di poetica si dovesse trovar traccia nel mio lavoro non mi assumo responsabilità e penso di poter affermare che di fronte all’opera, poetica pittorica o musicale che sia, ciascuno è
unico nelle sue emozioni, questo non garantisce né l’autenticità e nemmeno l’originalità
dell’opera ma certamente verità del proprio sentire e manifestare”.

Nel corso della sua carriera artistica lei ha prediletto il lavoro in terracotta, ma non ha disdegnato di realizzare anche opere in bronzo, alcune delle quali monumentali. Quale la differenza nel lavorare con l'una piuttosto che con l'altra materia? A livello emotivo quale delle due la soddisfa di più?

Data l’idea, la materia segue il pensiero nelle sue forme, il materiale è un fattore tecnico. Emotivamente mi dà piacere modellare la cera d’api, si intenerisce col calore delle mani ed è quasi come plasmare la propria pelle, si può riscaldare in bocca, ha sapore di miele e profuma di fiori”.

Cosa la fa sentire più vicino all'universo, manipolare la terra o realizzare un lavoro da lei concepito in tutto, che, però, poi viene eseguito materialmente da altri, come in genere oggi accade con le opere in bronzo o in marmo?

Dell’universo faccio parte a tempo pieno, nella gioia e nel dolore e la morte non mi separerà: sicut erat in principio, ora et sempre in omnia secula seculorum. Per l’esecuzione dei lavori importanti nel rinascimento c’erano le ‘botteghe’ dove i maestri insegnavano e gli allievi apprendevano non solo pennello e scalpello ma anche una visione del mondo. Oggi nelle accademie dipingono sulle tele con la scopa e il mondo lo vedono in televisione digitale ad alta risoluzione ma bassa qualità”.


Quale è il momento più importante dal punto di vista dell'ispirazione di un'opera? Per lei e' più emozionante il momento creativo o quello della fase conclusiva, quando il lavoro le si presenta finito?

Non è una spinta razionale ciò che induce l’uomo alla manifestazione creativa, ma, secondo me, è sperimentare l’attitudine che l’uomo possiede, tra le tante, di dare corpo, usando materia e colore ai molti aspetti della sua immaginazione. E non saprei nemmeno motivare il mio sentire così intimo con questo antico mondo archetipo magico fiabesco, eterna rigenerazione di vita di morte dove tutto torna sempre uguale e sempre diverso e sempre misterioso per la nostra mente ostinatamente perduta nella ricerca del ‘significato’”.

Per essere artisti occorre possedere necessariamente una componente narcisistica?

La teoria romantica del ‘genio’ ha radici molto antiche, solo nel Rinascimento viene associata al concetto di creazione artistica. In sintesi, prima del Rinascimento il giudizio di valore per un’opera d’arte si basava sull’estetica della ‘mimesi’ , dell’imitazione della realtà. Dopo, la ‘mimesi’ viene sostituita dalla creazione, si passa da un’estetica oggettiva ad una estetica soggettiva. L’interesse si sposta dall’opera alla persona dell’artista che, come spesso accade, vuol essere ancora più protagonista del suo stesso lavoro”.


In questi ultimi anni lei ha aderito a una linea di pensiero che guarda al mondo dell'arte contemporanea con occhio critico. In sintesi, quali sono le coordinate estetiche e culturali cui fa riferimento questa "corrente" artistica?

Faccio parte di un gruppo di artisti che rifiutando progresso e modernità riporta alla luce il mondo arcano della tradizione simbolica e degli archetipi dimenticati ma sempre operanti nel profondo della natura umana. Rappresentare il mito che ci racconta l’origine. Archetipo è l’evento o il personaggio che per destino, forza spirituale o avventura nella tradizione diventa mito”.

Quale è la differenza che fa di un artista un intellettuale piuttosto che un artigiano?
Tra le due figure oggi quale è quella che prevale? Lei quale sente più congeniale al suo modo di fare arte?

Per Vasari il genio aveva bisogno di essere fecondato dal sapere e riconosciuto dal potere, come avveniva al tempo di Lorenzo de’ Medici, despota illuminato. Il problema delle arti figurative di oggi è di non essere più nel rinascimento ma nel totale rimbambimento, un certo signor Cattelan, per esempio, vende brutti bambocci di plastica per milioni di dollari. Oggi prevale il ‘performer’ per cui persino Sgarbi è un ‘artista’, ma il teatro è un’arte. Borges affermava: “io sono ciò che ho letto, non ciò che ho scritto”. Io mi nutro di passato remoto, camminando tra le altissime colonne della cattedrale che sembrano le cupe foreste del nord, respirando la penombra che sa d’incenso accendo una candela troppo fioca per illuminare quell’immensità, vorrei che questa fosse la mia casa. Come Gaudì che viveva nella ‘Sagrada Familia’”.


Lo scultore Mario Zanoni è nato a Lugo di Romagna nel 1946. Vive e lavora a Sant'Agata sul Santerno. Ha al suo attivo decine di mostre collettive e personali, di cui alcune tenutesi all'estero. Le sue opere fanno parte di prestigiose collezioni pubbliche e private. Suoi lavori monumentali in bronzo si trovano a Ravenna e a Lugo.


Totem 
Lo scultore Mario Zanoni in una foto di qualche anno fa, mentre lavora
al monumento in bronzo Sol Invictus




sabato 23 aprile 2011

INTERVISTA A GIAN RUGGERO MANZONI





 
Gian Ruggero Manzoni



Il più eclettico degli artisti dal "sangue romagnolo"

di Marilena Spataro


E' lo scrittore che più di ogni altro ha contribuito a tenere in vita la tradizione del romanzo epico italiano. Con la pubblicazione, lo scorso anno, di “Una Macchia nel sole” (Edizioni del Girasole) ha posto l'ultima pietra al suo fortunato ciclo di quattro romanzi ad ambientazione storica, inaugurato nel 1993 con l’uscita di “Caneserpente” (Ed. Il Saggiatore). L'epica per Gian Ruggero Manzoni non è solo un'invenzione letteraria, ma la vita. La sua vita, fatta di viaggi avventurosi e di esplorazione. Esplorazione che non si ferma al mondo della cultura e dell'arte, ma che si addentra nei fatti per scoprire i più profondi significati e segreti di tutto ciò che è umano e che è carne viva e sangue pulsante. Nato da famiglia comitale, nel 1957, a San Lorenzo di Lugo, in quell'angolo di Romagna valliva che è terra di confine tra la provincia di Ravenna e quella di Ferrara, carica, perciò, di echi e di rimandi di diversa natura e appartenenza storica e culturale, Manzoni si è trovato a poter respirare, fin dalla più tenera età, atmosfere e ambienti di grande stimolo poetico e letterario, il che ne ha assecondato l'innata vena artistica. Il padre, Giovanni Manzoni, anche lui scrittore e storico di fama, e il cugino Piero Manzoni, tra i pittori più noti delle avanguardie del secolo scorso, hanno, poi, contribuito, con il loro esempio, a dare al giovane familiare l'incoraggiamento necessario per proseguire sulla strada intrapresa. Una strada che imboccherà la via del successo, quando, nel 1980, a solo 23 anni, Gian Ruggero Manzoni, diventa un caso letterario, con “Pesta duro e vai trànquilo/ dizionario del linguaggio giovanile” scritto in collaborazione con Emilio Delmonte, un libro edito da Feltrinelli, tuttora presente in quasi tutte le biblioteche universitarie europee e statunitensi.
La fama raggiunta non sarà per Manzoni un punto di arrivo, ma solo un inizio. Seguiranno, negli anni, romanzi, raccolte di poesie, saggi, lavori pittorici. Una produzione ricchissima ed eclettica, perennemente protesa verso la scoperta di linguaggi artistici innovativi e personali. In una sfida con se stesso che ancora continua.

Qual è il filo conduttore attraverso cui la componente epica si integra con la componente storica nei suoi romanzi?

“E' la matrice storica degli stessi, cioè l’aver affrontato in queste quattro narrazioni, Caneserpente, Il morbo, La Banda della Croce e Una macchia nel sole, tre momenti epocali importantissimi, che molto mi stanno a cuore, riguardanti la storia moderna, cioè il periodo della Rivoluzione Francese, il nostro Risorgimento e la Seconda Guerra Mondiale, vista dalla parte dei vinti poi dei vincitori, quindi l’aver raccontato tramite essi imprese indubbiamente epiche, vissute da personaggi realmente esistiti i quali, spingendosi all’estremo, osando, senza esclusione di colpi, hanno dato vita a situazioni esistenziali d’azione condotte con grande coraggio e dedizione, seppure, a volte, risultanti di massima ed efferata spietatezza, ma pur sempre in nome di un ideale per il quale, detti personaggi, erano disposti anche a dare la vita”.

Il movente culturale e poetico che la spinge a muoversi sul terreno della narrazione epica, invece, qual è?

“Direi la ricerca del bello, del bel gesto, dell’essere pronti anche alla morte cercando, in tale sacrificio, di dare dignità a un’intera esistenza. Quindi alla commozione che da ciò sgorga. In effetti reputo l’esistenza umana null’altro che un continuo prepararsi alla morte, quindi ogni gesto in essa vissuto deve sempre contenere in sé una sorta di ritualità, di sacra liturgia, di ‘senso’, di profonda responsabilità, come poi, un tempo, in tale modo, si credeva sia in occidente sia in oriente. Quindi parlerei del mio fare in narrativa come di una perdurante sacralità epica, quindi non solo di epica; una sacralità rivolta al bello e, di conseguenza, anche all’etico, al richiamo etico”.

Solo alcuni decenni fa la critica letteraria considerava il romanzo in netto contrasto con il racconto epico. Cosa è cambiato da allora? E in quale misura il suo lavoro ha contribuito a questo ripensamento?

“Da allora sono crollate le ideologie e l’Occidente è in piena crisi d’identità, e non mi pare poco, in modo che il far ricordare da dove veniamo è diventato uno dei primi motivi del mio fare arte. Tramite l’indagare nella memoria, del singolo e collettiva, il favorire il ricordo, il rendere noto quali siano stati i processi storici che ci hanno portato alla situazione attuale sono divenuti tra i fattori portanti della mia creatività letteraria e non solo. Nel mio piccolo ho quindi ridato voce a una sorta di orgoglio dovuto a un’appartenenza, a una determinata cultura, a una tradizione, e ciò mi viene riconosciuto, essendo considerato tra quei pochi intellettuali italiani che ancora credono con emozione a una rinascita nazionale poggiante sul nostro sapere classico-umanistico e sull’esistenza dei tanti che hanno dato la vita al fine che l’Italia potesse considerarsi degna di fronte agli occhi del mondo”.

Oggi, quali sono gli elementi distintivi del genere epico rispetto agli altri generi letterari?

“La vita di chi scrive. Il come lo scrittore si sia speso e si spenda in vita. Coloro che dicono di scrivere con e di epica non hanno mai vissuto alcunché al di fuori delle quattro mura domestiche e delle tagliatelle che giornalmente prepara loro la mamma. Sono dei piccoli Salgari che hanno delegato altri ad agire o, meglio, a vivere al posto loro. Mai come ora arte e vita devono tornare a essere una cosa sola. Se non vivi epicamente non puoi scrivere di epica. Se non sei un sacerdote non puoi dire Messa. Io la vedo così. Ecco perché non credo ai teorizzatori della New Italian Epic. Ecco perché sorrido quando i Wu Ming, Carlo Lucarelli, Antonio Scurati, Giancarlo De Cataldo e compari la raccontano, dicendosi dei porta bandiera. Mi dispiace per loro ma non sono credibili. Mai sono scesi in campo, mai sono stati sfiorati dalle pallottole o si sono scazzottati con dei malesi sulle banchine di un porto. Poi perché non: Nuova Epica Italiana? Perché sempre in inglese queste definizioni?”.

Perché Gian Ruggero Manzoni scrittore predilige il romanzo storico? E come mai, in una narrazione di ampissimo respiro culturale e geografico, i personaggi vengono puntualmente ricondotti, in un modo o nell’altro, alla terra di Romagna?

“Perché credo alla storia come Magistra vitae e perché sono un assertore del Genius loci. In primo luogo sono romagnolo della Bassa, poi italiano, quindi europeo. La geografia è importantissima per definire una poetica riconoscibile. Infine siamo, tutti, risultanze di una terra di appartenenza e di quegli usi e costumi. Di quel clima. Di quel carattere”.

Come ha detto, lei è romagnolo, seppure il suo continuo viaggiare e a volte il vivere lontano dalla sua terra anche per anni, comunque, puntualmente, lei sceglie di ritornare alle sue origini. Qual è il senso profondo di questa scelta?

“Il Sangue Romagnolo, come scrisse Edmondo De Amicis nel suo bellissimo e struggente libro Cuore. E non scherzo nel dirlo, badi bene. Libro che va ripreso in toto”.

Quanto, a suo parere, in una società sempre più globalizzata, anche dal punto di vista dell’espressione culturale e artistica, può avere valore mantenere il legame con le proprie radici?

“Le radici sono tutto. Chi non ha radice non esiste. Non è. Nessuna tradizione culturale presente al mondo ha mai negato l’importanza della radice, dalle costruzioni culturali più semplici a quelle più complesse, anzi, lo spirito di appartenenza è sempre stato esaltato. Comunque ogni uomo ha una sua radice, anche i popoli nomadi l’hanno, appunto il nomadismo, così scriveva Spengler. Noi si è come un albero, per usare un’immagine zen. Abbiamo le radici in terra e la chioma sono le nostre radici in cielo, mentre il fusto serve al fine di congiungere il micro al macro, una parte al tutto, all’Assoluto”.

Pensa che il romanzo e la letteratura a tutt’oggi siano investiti di una qualche funzione sociale ed etica, o le coordinate cui fare riferimento ormai sono altre?

“Io scrivo tenendo sempre presente il sociale e il senso etico, nonché il piacere estetico, così come già le ho detto. Che altro esiste al di là di questi elementi? Forse lo sbandamento generale, la perdita di punti di riferimento, il vacuo, l’effimero, l’imbecillità che contraddistingue il genere umano? Sì, esistono, ma li lascio narrare ad altri. Ovviamente altri che poi non leggo. Sono molto stanco di tutto questo vuoto, di questo nulla d’accatto spacciato per sostanza, spacciato per cultura. Di queste storie minimali vendute come fossero l’Iliade o l’Odissea. Non sopporto questa mediocrità dilagante”.

Più volte lei ha sottolineato che la sua visione del mondo è imprescindibile da una visione estetica delle cose. Può spiegarci brevemente la portata di tale affermazione?

“In breve: se non si ha la capacità di riconoscere il bello e il sublime là dove prendono forma non si è. E per bello e sublime intendo anche il brutto ricercato e l’antisublime, che poi divengono, nelle mani dell’artefice, dell’artista, un bello e un sublime anch’essi, ad esempio leggi Celine oppure prendi un quadro di Bacon o una scultura di Giacometti”.

La sua Weltanshauung è in qualche modo riconducibile alle sue origini romagnole e alla sua formazione culturale giovanile? Quanto tutto ciò ha influenzato il suo linguaggio artistico e letterario?

“Totalmente. Il mio fare arte è una risultanza di quel che sono, di quello che sono stati mia madre e mio padre, i miei nonni, i miei avi e tutti coloro che in questa nostra geografia fisica e socio culturale hanno vissuto. Dicendo ciò non voglio assolutamente negare le matrici altre, anzi, reputo che solo conoscendo da dove si proviene si può imbastire un dialogo produttivo con un altro da te che sa altrettanto bene dal dove arriva. Ad esempio io capisco benissimo gli italiani del sud, i russi, gli islamici che sanno di esserlo, cioè che non hanno tradito il loro essere, i loro archetipi, le loro credenze, perché, da parte mia, mai ho tradito il mio essere. Da ciò scaturisce la mia curiosità nei confronti dell’altro. Da ciò nasce il piacere di conoscerlo sempre meglio”.

Oltre che scrittore e poeta, lei è anche pittore e critico d’arte, questa varietà di linguaggi e interessi culturali le conferisce una patente di intellettuale a tutto campo, dandole la possibilità di guardare alla realtà da un osservatorio privilegiato attraverso più angoli visuali. Alla luce di questo, qual è la sua lettura del mondo di oggi, soprattutto per quanto riguarda lo stato delle arti figurative e della letteratura? Qual è il loro futuro e cosa lei auspica in merito?

“Non sono ottimista. L’Europa e in particolare l’Italia stanno precipitando in caduta libera sotto infiniti punti di vista, e ciò si riflette pesantemente su ogni tipo di disciplina espressiva. La rivoluzione in atto, quella definita del Tecnologico Avanzato, sta velocemente segando le gambe a tutto ciò che è patrimonio ‘artigianale’. Le culture avanzanti non ci stanno dando tregua e noi non siamo in grado di tenere testa a quegli urti che stanno giungendo qui dai quattro angoli del pianeta. Si risponde o arroccandosi sterilmente oppure tramite un lassismo globalistico generalizzato. Non esiste una via di mezzo. Non si capisce che solo avendo coscienza, conoscenza di sé stessi si può dialogare con gli altri esseri umani. Qui abbiamo i soldi e la pancia ancora piena, ma sempre più manca la cultura, manca l’elevazione culturale per poi trasformare tale benessere in bello e in bene. Infine siamo ignoranti. Siamo ricchi, pingui e ignoranti, e ciò è l’anticamera della fine”.

Quanto ai suoi progetti, a cosa sta lavorando attualmente? E a quando il suo prossimo romanzo? E’ lecito chiederle di anticiparci qualcosa?

“Di recente è uscita la mia traduzione dell’Esodo biblico che ho fatto per l’editore Raffaelli di Rimini. Un lavoro che mi ha preso per oltre un anno. Una magnifica esperienza perché ho ficcato le mani in quello che è il libro per antonomasia da cui sgorga la nostra tradizione. Adesso, sempre per l'editore Raffaelli, sto traducendo la Genesi. E, a breve, dovrebbe uscire un mio nuovo romanzo in cui, appunto, tratto della storia della mia famiglia in relazione alla Romagna, dove poi la mia gens dimora da oltre cinquecento anni”.

Un dipinto di Gian Ruggero Manzoni

domenica 3 aprile 2011

GIOVANNI SCARDOVI. SOLIDA IMAGO

Scolpire la contemporaneità.
La suggestione che nasce dal mitico e dal simbolico

di Marilena Spataro


 

Un incipit che è una fotografia impietosa del mondo dell'arte contemporanea e che introduce fin dalla prime battute una lucida, quanto serrata, critica agli attuali sistemi dell'arte senza indulgenze per nessuno: musei, gallerie, sono colpevoli, per Giovanni Scardovi , autore del libro Solida Imago , della crisi che oggi attraversa le arti figurative tanto quanto gli stessi artisti, sempre più attenti a soddisfare le richieste del mercato o a stupire il pubblico con boutade a effetto, piuttosto che a esprimersi sulla base di una spontanea visione artistica ed estetica.
"Queste sale, questi spazi dove riposano le opere del Novecento fino a questo inizio secolo, in un itinerario espositivo che ispira un senso di sacralità cimiteriale e dove hanno dimora immagini e forme come memorie, in scansione elencativa: è il museo, invenzione recente dove la veglia della ragione genera separatezza, ed è infatti un contenitore separato dalla quotidianità del nostro vivere che osservo percorrendo i corpi di queste immagini", così esordisce Scardovi, che subito dopo s'interroga: "ma perché l'opera che in epoca rinascimentale era parte integrante dello spazio vitale dell'architettura di interni o esterni ora riposa in questa sorta di enciclopedia visiva che si spalanca nella separatezza della mia osservazione?". La risposta a questo quesito e ai tanti altri che emergono nel corso del ragionamento sviluppato nelle pagine successive di Solida Imago verranno fornite dall'autore attraverso una decifrazione critico poetica sul manifestarsi dell'arte nella contemporaneità e con una lettura interpretativa epifanica delle immagini plastiche di alcuni artisti operanti oggi nell'ambito della scultura con tendenze simboliche, surreali e allegoriche.
In collegamento con la presentazione di Solida Imago, è stata, perciò, allestita una mostra itinerante di alcune sculture degli artisti presenti nel saggio di Giovanni Scardovi che testimonia plasticamente la visione critico poetico che li analogizza. Partita nello scorso autunno dalle sale del museo Marfisa d'Este di Ferrara, la mostra è stata in Febbraio del 2010 alle Pescherie della Rocca di Lugo e successivamente al Castello di Cento di Ferrara. IL calendario del 2011 è in corso di programmazione. Le opere che saranno esposte nelle prossime mostre sono sculture di Maurizio Bonora, Ilaria Ciardi, Gianni Guidi, Sergio Monari, Giovanni Scardovi, Sergio Zanni, Mario Zanoni.

Da dove nasce l'esigenza di scrivere un saggio critico come Solida Imago?

"Solida imago nasce da due moventi, uno consistente nella messa in discussione del mostrismo contemporaneo; con il termine mostrismo intendo deprecare la costante, praticamente totalizzante, con cui si manifesta l'arte nella contemporaneità, a differenza di altre epoche in cui l'opera veniva a essere stanziale negli esterni e interni dell'architettura e a contatto con la quotidianità dell'esistere.
Nella contemporaneità, la mostra, la galleria e i musei hanno assunto le modalità prioritarie di divulgazione dell'opera d'arte, con ciò non è che io intenda affermare che musei e gallerie siano da eliminare, ma intendo invece cogliere come questo manifestarsi sia diventato per lo più l'unico approccio all'opera. L'opera ha perso così quella dimensione sacrale e unica che deteneva in epoca pre illuminista assumendo invece la costante di un prét à porter che ne limita e ne ghettizza l'esistenza. Il secondo movente è quello di un ritorno al mito come narrazione che le neoavanguardie del secondo Novecento hanno affondato: la perdita del sacro, come afferma l'architetto Mario Botta, ha creato nella contemporaneità guasti profondi. Da qui l'attenzione che il mio testo rivolge nei confronti di scultori che si muovono nella visione del mito e del sacro".

 Quali sono le principali cause che hanno determinato il deterioramento, che lei denuncia, del panorama artistico attuale? Il suo libro è un j'accuse a tutto campo della contemporaneità, una provocazione o cos'altro?

"Le cause determinanti il deterioramento dell'arte nella contemporaneità sono di diversa natura, da una parte la ghettizzazione prodotta da gallerie e musei rispetto a quella che era l'abitabilità dell'opera, come abbiamo detto precedentemente, nelle strutture architettoniche, dall'altra la banalizzazione dell'opera stessa determinata dal neo dadaismo imperante dell'oggetto vissuto come installazione, oggetto che produce più una boutade provocatoria che la realtà di un'opera d'arte. Dobbiamo sottolineare che l'oggetto provocatorio del Dada, da Duchamp in poi, ha portato a concepire opera d'arte, un sacco di carbone, come avviene nell'opera di Kunuellis, mentre, fuori dalla convenzionalità della galleria è solamente oggetto privo di significato. Il neo Dada ha così voluto fare assumere alla quotidianità del banale la valenza di opera, producendo un impoverimento del linguaggio e una nientificazione dell'immagine".

Le pagine da lei scritte, oltre ad aprire un dibattito sul modo di fare e d'intendere l'arte oggi, potrebbero in qualche modo contribuire a innescare una critica di più ampio respiro, che coinvolga anche gli aspetti dell'assetto della società e delle sue istituzioni?

"Il mercatismo e la mercificazione dell'opera che la galleria ha prodotto è frutto della logica capitalista contemporanea. E' la negazione di una concezione sapienziale dell'arte, la bellezza e l'evocazione dell'immagine è stata sacrificata alla trovata".

Quali i riferimenti storici filosofici ed estetici su cui si fonda la sua visione dell'arte?

"I miei riferimenti riguardano il sacro, il mito e le istanze simboliche e allegoriche. Rifondare l'arte è anche rifondare la società".

Quali le coordinate sociali etiche ed estetiche per ripartire?

"Rifondare l'arte è rifondare la società e rifondare la società è rifondare l'arte. Un sistema che riesca a fondere in armonia gli elementi artistici e architettonici è ancora ipotizzabile o non ci resta che guardare con nostalgia al passato? Per ora non ci resta che guardare con nostalgia al passato. E come dice Marc Maffesoli: ritorniamo all'antico, sarà un progresso".

Pensa che l'arte possieda gli antidoti giusti per salvarsi dall'omologazione della società attuale? Quali sono questi antidoti e come vanno "utilizzati"?

"Gli antidoti per salvarsi dalla banalizzazione contemporanea sono dati dalla messa in discussione della contemporaneità e dal ritorno al pensiero archetipico, che etimologicamente significa "tipi dell'origine". In una società mediatica come la nostra, fondata sugli effetti speciali, pensa ci sia ancora posto per lo stupore che nasce nell'ammirare un lavoro artistico? Non mi risulta che si siano verificate davanti a opere contemporanee sindromi di Stendhal, lì l'approccio all'opera era basato su una perdita che portava al sublime, mentre l'opera contemporanea spesso produce, nella perdita del tragico, il comico".

Come si inseriscono nel suo discorso sull'arte gli scultori di cui descrive i lavori in questo suo libro?

"Quale il linguaggio che li analogizza? Esistono analogie tra gli scultori trattati nel libro che si fondano su una costante mitica e una sospensione magica dell'immagine, le opere in questione muovono da moventi surreali allegorici e fondamentalmente iconici, una sorta di religiosità le accomuna nelle differenze. In questo l'immagine detiene la forza evocativa di una tradizione del significato che ci riporta alle simbologie dell'origine, simbologie che, come afferma Mircea Eliade, sia pur rimosse dal razionalismo contemporaneo, ci appartengono nel profondo e ritornano in un ossimoro che unisce passato e futuro".

Alla luce di quanto fin qui sostenuto, ritiene ci si ancora un futuro per l'arte?

"Sì, se si riguarderà al passato".

Pensa che il suo discorso debba continuare?

"Penso che il mio discorso faccia parte di un'attenzione polemica europea nei confronti dell'arte contemporanea che in Italia non si è ancora manifestata. Occorre considerare a questo proposito, la critica in Francia di Jean Clair nel suo saggio "Critica della modernità" e le feroci affermazioni di Marc Maffesoli nel suo testo critico "Parigi , New York e ritorno, viaggio nell'arte contemporanea", in cui la poetica della Pop art viene rifiutata nei suoi fondamenti estetici. Ciò è dimostrato anche dall'esultanza con cui artisti e critici americani hanno accolto la crisi del sistema dell'arte paragondola alla bolla speculativa economica di questi ultimi anni".

Lo farà da critico, da scultore o da poeta?

"Penso che occorra in questo caso agire su tutti i fronti perché il malessere della contemporaneità attraversa oltre i linguaggi dell'arte anche quelli della letteratura. I guasti prodotti dalle neo avanguardie fanno parte di una logica in cui l'artista è stato più sperimentatore di modalità del comportamento espressivo che interprete di una visione del mondo".


Lo scultore Giovanni Scardovi