lunedì 10 ottobre 2011

Edizione 2011 di Ravenna Festival. Intervista a Cristina Muti Mazzavillani

di Marilena Spataro



Da Signora del Ravenna Festival a nonna?


Sopra, Cristina Muti Mazzavillani



Conosciuta in tutto il mondo per essere stata capitale dell'Impero romano di Occidente, della cui grandezza tuttora sono viva testimonianza imponenti opere architettoniche, monumentali e musive di elevato valore artistico ed estetico, Ravenna ha continuato per secoli a essere quella “città assorta e monastica, nebbiosa necropoli stillante accidia e malinconia che ha serbato anche nell'età delle automobili e della televisione” descritta da Indro Montanelli, nel IV volume della sua Storia d'Italia. A scuoterla da questo antico torpore, sfidando il carattere diffidente e lo spirito di conservazione dei ravennati, ci ha pensato una donna, anche lei ravennate, ma, con in più, rispetto ai suoi concittadini, nelle vene una passione incontenibile per la musica colta, tant'è che per anni ha tenuto concerti di successo come cantante di Lieder, e nel cuore, un grandissimo amore per Riccardo Muti, tra i più apprezzati direttori di orchestra viventi, di cui Cristina Mazzavillani è diventata nel '69 la moglie. E' a lei e al suo costante impegno per favorire e diffondere la cultura nella sua città che si deve il Ravenna Festival, una rassegna dedicata alla musica e alle arti performative che vede da ben ventidueanni l'ex capitale dell'impero e il suo territorio al centro di una serie di qualificatissimi eventi di livello internazionale di cui due dislocati, durante le giornate de “Le Vie dell'amicizia”, in una città italiana e in una straniera, quest'ultima scelta sulla base di principi di cooperazione e di fratellanza tra popoli e culture diversi. Le due città scelte per l'edizione 2011 sono state Piacenza e Nairobi.

Quando iniziò Ravenna Festival, immaginava che avrebbe avuto tanto successo?

Non solo non lo pensavo, ma ero decisa a rifiutare l'invito dell'allora sindaco di Ravenna che mi chiedeva di creare qualcosa di importante per la nostra città: mi sentivo inadeguata, inoltre avevo già tre figli e un marito impegnativo come Riccardo Muti da seguire. Dopo il matrimonio avevo abbandonato persino il canto per seguire la mia famiglia. Ritenevo, perciò, di non avere né il tempo né le capacità per dedicarmi a questa avventura. Fu Benigno Zaccagnini che al tempo mi convinse ad accettare in nome del bene della città. E oggi, visto come sono andate le cose, forse un po' tutti abbiamo nei suoi confronti un debito di gratitudine”.

E Riccardo Muti che ruolo ha avuto nel determinare il successo del Festival?

Ammetto che io ho fatto la mia parte, lavorando con impegno e tenacia al progetto, ma è stato il nome di mio marito a consentirmi di dialogare con tutti i grandi della musica mondiale. Grazie a lui tutte le porte dell'arte si sono aperte permettendomi di far arrivare a Ravenna fin dal principio ospiti di primo piano che certo non si sarebbero spesi tanto facilmente. Paradossalmente, sono stati loro a fare da vetrina al Ravenna Festival, non il contrario”.

Come è stato agli esordi il rapporto con la sua città?

All'inizio è stata dura perchè da parte della gente c'era molta diffidenza, cosa che io da ravennate e romagnola capisco benissimo. Noi siamo così, più che alle parole badiamo ai fatti. Per cui prima sono stata messa alla prova. Appena tutti hanno potuto toccare con mano i risultati del mio impegno, allora le riserve sono cadute. Da parte mia c'è stato un lungo e sottile lavoro per coinvolgere i vari ambienti cittadini, soprattutto quelli legati ai giovani. Qui ho trovato un mondo sommerso fatto di grande creatività e di talenti nascosti che, perciò, andavano valorizzati. Questo festival può e deve essere una opportunità per la crescita di tutta la società ravennate e non solo una manifestazione artistica e di spettacolo”.

Qual è il legame che intercorre tra questo festival e il territorio ravennate che ogni anno lo ospita?
E' un legame strettissimo. Ravenna è una città particolare che da sempre guarda verso oriente. E' stata capitale di un impero, i suoi monumenti, il suo tessuto urbano, le sue opere d'arte e la sua società parlano di questa storia e lo fanno in una lingua tutta propria e originale. Avendo vissuto per moltissimi anni fuori dalla mia città, ho dovuto fare una lunga full immersion per riprendere contatto con tutte queste specificità che la caratterizzano. Nel far questo mi sono confrontata con il territorio sotto vari aspetti, quello delle tradizioni, della collocazione geografica e anche del suo ambiente naturale. Tutto questo lavoro fatto a monte mi sembra che oggi traspaia chiaramente dagli spettacoli e dagli eventi che organizziamo per il festival”.

Ravenna si è candidata a Capitale europea della cultura per il 2019. Ospitare una manifestazione di livello internazionale come il Ravenna Festival può contribuire a favorire questa candidatura?
Di certo la presenza di Ravenna Festival può costituire una buona leva in tal senso, ma non basta. Per diventare capitale della cultura occorre altro. E' necessario lavorare per creare delle strutture che possano ospitare un così importante appuntamento, realizzando opere capaci di dare un volto nuovo alla città dalla forte valenza culturale, il che significa predisporre un piano cittadino che investa anche l'aspetto urbano. Ma, di tutto questo ad oggi, e purtroppo, io non ne vedo traccia. E non so nemmeno se ci sarà più tempo per farlo. Secondo me la città dovrebbe essere ripensata in una architettura armoniosa e integrata del territorio, dove il mare e il porto abbiano un ruolo di primo piano”.

La crisi economica di questi ultimi ha toccato inesorabilmente anche Ravenna. A suo parere puntare su grandi eventi che valorizzino il patrimonio artistico e culturale cittadino, può costituire una risorsa da spendere a favore della crescita economica del territorio?
Si, certo. Ma solo una delle tante carte da spendere e, comunque, mai da sola. Penso, infatti, che debbano essere la politica e l'economia ad aiutare la cultura, non il contrario. Quello che manca oggi, e su cui occorrerebbe muoversi, è avviare nel nostro Paese delle politiche della cultura che siano efficaci. Politica, economia e cultura sono aspetti che nella nostra società si intrecciano continuamente, solo se tra loro si crea sinergia si potrà davvero ottenere una crescita a tutti i livelli, quindi anche dell'economia”:


Qual è la valenza culturale e sociale che si è voluta attribuire a “Le Vie dell'amicizia”?

Il valore di questo progetto avviato dieci anni fa è quello di rispondere alle chiamate di popoli molto diversi dal nostro per tradizioni e culture. Noi desideriamo farli conoscere e dialogare con loro per costruire un ponte di pace e di solidarietà. Per questo organizziamo spettacoli e iniziative comuni. Il risultato del nostro impegno è che oggi sono questi stessi popoli a chiamarci. E noi cerchiamo di rispondere alla loro chiamata al meglio delle nostre forze. Siamo stati con questa manifestazione a Beirut, a Serajevo e in tante altre località particolarmente “calde” del mondo. Dove andiamo vogliamo lasciare un dono, a Beirut è nata, ad esempio, una scuola di mosaico collegata a quella di Ravenna. Laddove non riusciamo a lasciare qualcosa di materialmente tangibile e utile, comunque, lasciamo sempre il nostro abbraccio e la nostra amicizia”.


Di questo progetto si può dire che abbia più una maternità, la sua, o una paternità, quella di suo marito?
La maternità è mia, lo riconosco, ma sarebbe stata sterile se non ci fosse stata una paternità così pronta e feconda come quella di mio marito. Entrambi teniamo molto e siamo molto fieri di questo evento collegato al Ravenna Festival. Nonostante i grandi sacrifici che stiamo affrontando a causa dell'attuale crisi economica per mantenerlo ad alti livelli, non intendiamo mollare. Le Vie dell'amicizia sono una strada che secondo me è benedetta, una strada che va e che ritorna, è per questo che si deve continuare a percorrerla senza mai farsi scoraggiare. Rispetto a questa manifestazione si può affermare che Ravenna è la città che oggi più di ogni altra al mondo a chiamata risponde, il che la pone meritatamente al centro dell'attenzione internazionale”.



Una vita di successo e ricca di soddisfazioni a tutti i livelli, la sua. C'è ancora qualcosa che desidera in modo particolare per sé, per la sua famiglia e per la sua città?
Per quanto riguarda la mia città desidero che continui a crescere e a prosperare in un'ottica di fratellanza e di cooperazione mondiale. Personalmente desidero ritirarmi a vita privata per stare accanto ai miei familiari, soprattutto ai miei nipoti. Gli impegni pubblici mi hanno, spesso, impedito di essere vicina ai miei figli. Non voglio che questo accada con i miei nipoti. Per noi romagnoli la figura dei nonni è molto importante, il loro esempio ci guida nel corso della vita. Ravenna Festival ha delle fondamenta molto solide e gode di uno staff di persone straordinarie che sono in grado di continuare benissimo lungo il percorso da me tracciato. La mia attenzione nei confronti di questa manifestazione non verrà mai meno, ci sarò sempre, ma lontano dai riflettori”.


martedì 20 settembre 2011

Il sogno del mago - Mostra di scultura di Mario Zanoni



ALEF

Libreria esoterica Galleria d’Arte

Con il Patrocinio del Comune di Ravenna

Ha il piacere d’invitarLa


Inaugurazione Mostra di Scultura

Opere di
Mario Zanoni

Il sogno del Mago”

Sabato 24 Settembre 2011 dalle ore 18
(Buffet)



Dal 24 Sett. Al 31 Ottob. 2011
Via Ravegnana 146/a Ravenna
Orari: dalle 10-12.30/ 16.30-20
Chiuso il lunedì. tel.0544.401645 - 3483666968





martedì 14 giugno 2011

INTERVISTA A GIAN VITTORIO BALDI




Il genio della Nouvelle Vague italiana che ama la Romagna

     di Marilena Spataro


Nato a Bologna, ottant'anni fa, Gian Vittorio Baldi è il primo artista italiano ad aver capito la lezione della Nouvelle Vague e ad averla sperimentata da noi.
E' anche colui che per primo nel Dopoguerra ha utilizzatoin Italia la presa diretta in tutte le sue potenzialità, conferendo a questa tecnica la dignità di formidabile mezzo espressivo. Ed è ancora il produttore coraggioso che ha realizzato pellicole difficili firmate da personaggi del calibro di un Godard, di un Bresson e di un Pasolini. Mai, come per questo artista, il detto “nessuno è profeta in patria” suona veritiero. Essere un outsider, e per giunta lungimirante, non ha certo giovato alla sua carriera, i maggiori riconoscimenti come regista Baldi li ha ottenuti, e continua a ottenerli, all'estero. Anche se in patria gli hanno conferito, quando era giovanissimo, due Leoni d’Oro per il cortometraggio al Festival del cinema di Venezia, questo non basta a fare giustizia alla sua bravura e alle sue capacità artisitiche. Ciononostante, e al di là della sua non più giovane età, egli continua a essere presente sulla scena del cinema internazionale, soprattutto come maestro che viaggia per il mondo insegnando agli studenti di regia, con il racconto della sua esperienza da cineasta e produttore, una visione originalissima, e diversa da quella usuale, del cinema, che si pone in un continuo confronto con le più avanzate tecnologie esistenti e con quelle del futuro. Durante le pause di lavoro da anni Baldi va “in ritiro” nella sua suggestiva casetta in pietra immersa nel verde collinare dell'Appennino romagnolo, tra Brisighella e Modigliana, e questo, nonostante a Roma possieda una splendida e, per il tempo in cui fu costruita, avveniristica villa sulla Flaminia, progettata da un giovanissimo studente di architettura il cui nome sarebbe divenuto da lì a qualche anno famoso: si trattava, infatti, di Paolo Portoghesi. “Credo di aver contribuito a mettere in evidenza il talento di quel giovane facendogli realizzare la mia dimora romana” afferma, con orgoglio, il regista.
Che nel raccontare i momenti più importanti della sua vita artistica e privata, traccia le linee essenziali lungo le quali scorre la storia del cinema.


Bolognese di nascita, prima milanese e poi romano di adozione e, fin da giovane, sempre in giro per il mondo. Perchè Gian Vittorio Baldi ha scelto di vivere in Romagna e proprio in quella sua parte più “selvaggia”, genuina e maggiormente refrattaria alla modernità?
Ho sentito il bisogno di tornare sui passi dei miei antenati che erano fabbri a Brisighella oltre mille anni fa e che sono sepolti nel piccolo cimitero accanto alla Pieve del Thò. Oltre al richiamo degli avi, c’è anche un altro motivo che mi ha spinto a vivere in Romagna, ed è il ricordo, toccante e sempre vivo nella mia memoria, di me adolescente a Lugo, dove ho trascorso da sfollato i due ultimi anni della Seconda guerra mondiale. E’ stato un periodo di enormi difficoltà: la fame, la miseria più assoluta, la guerra. Ma anche un tempo di grande formazione, dove a fare da contrappeso a questi affanni c’erano i sentimenti di umanità e di solidarietà della gente del luogo. In realtà mi sento molto legato a tutta
l' Emilia Romagna, tantissimi anni fa ho persino voluto sperimentare la bontà della sua terra fondando un’azienda viti vinicola, che oggi ha la sede e i vigneti a Modigliana. Un'azienda che permise in tempi lontani a questa regione di ottenere il primo riconoscimento di certificazione di qualità”.

Nel 2005 lei ha donato una parte del suo prezioso archivio legato alla storia del cinema italiano e straniero alla biblioteca comunale di Lugo di Romagna. Un gesto di riconoscenza per l'ospitalità ricevuta da ragazzo?
Sì. Per affetto e per gratitudine verso questa cittadina che porto sempre nel cuore. L’opportunità di creare il fondo alla Trisi è nata dall’incontro con l’ex direttore Igino Poggiali. Si tratta di quasi quattromila libri, di una mole cospicua di materiale cartaceo e di audiovisivi. E’ una testimonianza importante della mia vita artistica e familiare, anche quella più intima, e della storia del cinema italiano e mondiale del '900. Vorrei che l’archivio venisse aperto a tutti al più presto, specialmente ai giovani, e anche che ogni tanto si tenessero a Lugo delle proiezione dei miei film”.

Il suo modo di fare cinema e la sua poetica affondano le loro radici nelle atmosfere da lei vissute da ragazzo nella Bassa Romagna?
Il paesaggio, la gente, la situazione politico sociale, tutto un ambiente e dei momenti particolari che ho vissuto nella Seconda guerra mondiale in questa parte di Romagna, hanno influenzato fortemente la mia poetica. Le esperienze dell’adolescenza sono quelle che ti rimangono dentro”.

Quali i registi dell’Emilia Romagna che sente più affini?
Con Michelangelo Antonioni ho cercato di fare, una volta uscito dall’Università, da aiuto regista, assistente, manovale, ma non ci sono riuscito. Siamo diventati amici anni dopo. Per me è stato un inarrivabile artista e grande maestro. Con Federico Fellini esisteva un bellissimo rapporto, mi chiamava il mio “baldone”. La sua esperienza era, però, lontanissima dalla mia; lui era un grande caricaturista, bravissimo disegnatore con una geniale fantasia macchiettistica e battutistica e si appoggiava ad autori del calibro di Ennio Flaiano o del mio amico Tonino Guerra, io, invece, credo nel cinema dell’autore, quello che fa tutto da sé, come uno scultore o un pittore”.

Da cosa nasce la sua passione per il cinema?
A Milano, un mio fratello che lavorava per il Sole24ore come critico cinematografico, mi diede la possibilità di andare al cinema al posto suo. Eravamo da poco arrivati dalla Romagna e andare a vedere i film americani e il musical gratis, a 15 anni, appena usciti dalla guerra, non poteva che essere entusiasmante. Così divenni io stesso il critico. Da lì decisi di frequentare regia all’Università di Roma, una volta laureatomi cominciai a lavorare con la televisione francese, poi con quella italiana; infine mi staccai, diventando regista e produttore autonomo”.

Come avviene il suo passaggio dal mondo della regia a quello della produzione cinematografica?
Esistevano dei talenti che non riuscivano a trovare il modo di esprimersi perché il mercato li condizionava, allora io mi sono detto che dovevo aiutarli, facendo il produttore”.

Cosa ne pensa del cinema italiano di oggi?
Che è un disastro, con le sole eccezioni di Marco Bellocchio e di Paolo Sorrentino, due autori straordinari. Per il cinema, come lo intendevamo noi, non esiste più futuro nè in Italia nè nel mondo. Oggi c’è l’immagine in movimento, nelle sue mille trasformazioni e possibilità, dal videogioco al film sul web. La mia prossima opera intendo produrla così. E’ questo il futuro. Il che significa la fine dei circuiti cinematografici e la morte di migliaia di sale, ne rimarranno una o due per città, come per il teatro lirico”.

Non prova un po’ di rimpianto?
Già 50 anni fa affermavo che i film si sarebbero venduti in video cassette in edicola e che il cinema si sarebbe evoluto con le nuove tecnologie; allora questa sembrava un’eresia, ma poi è accaduto. E’ per queste mie tesi, più che per le mie produzioni e per le mie opere, che mi chiamano in tutto il mondo. Lo scorso anno ho tenuto lezioni agli studenti anche in Cina e in India. Quanto al cinema del '900, questo rimarrà come una memoria storica straordinaria, me se si pensa cosa bisognava affrontare per fare un film, cioè una serie di passaggi lunghissimi più una serie di condizionamenti, altrimenti incappavi nella censura, come è stato nel '59 per il mio “Luciano”, dove già affrontavo il tema della pedofilia dei preti, o per il film di Pasolini, “Porcile”, ritengo sia meglio così. Prima o poi tutto cambia: alla carrozza a cavalli è subentrata l’automobile, alla macchina da presa tradizionale i nuovi mezzi tecnologici. Non vedo niente di male in tutto ciò, anzi, potrebbe trattarsi di una grande occasione di libertà”.


In apertura di pagina, Gian Vittorio Baldi con il regista Pier Paolo Pasolini. Qui sopra nella sua azienda viti - vinicola mentre osserva soddisfatto un tralcio delle sue viti 



Accanto, la villa a Roma di Baldi progettata dal famoso architetto Paolo Portoghesi quando ancora era studente 

lunedì 25 aprile 2011

INTERVISTA A MARIO ZANONI (inedita)


Pan, scultura in terracotta dipinta



Lo scultore che narra le 'origini'
dando forma al mito

di Marilena Spataro




E' arrivato alla scultura a quasi quarant'anni. Non se ne è più distaccato. A familiarizzare con l'arte, Mario Zanoni ha cominciato che era giovanissimo, prima come musicista in una band che faceva il rock, un genere musicale che andava per la maggiore negli anni '60-'70, poi come coreografo e attore nel teatro sperimentale. Ma tutto questo, probabilmente, non gli bastava. La sua vena creativa aveva bisogno di spaziare trovando forme espressive altre, forme che fossero più aderenti alla sua indole di artigiano, di maestro del fare più che di interprete di lavori altrui. Questo sentire profondo lo ha portato a esplorare campi artistici a lui ignoti, facendolo, infine, felicemente approdare nel mondo delle arti figurative. “La musica non ha forma perché è un’emozione. Fare musica per il teatro mi avvicinò alla forma mantenendomi al contempo vicino al ritmo. E' così che ho capito che la scultura deve danzare o anticipare il movimento o mantenerlo segreto, facendolo, però, percepire: l’opera, anche se di pietra, non deve essere ‘pietrificata’” spiega lo stesso artista. Che qui svela il percorso lungo il quale si snodano le tappe dell'anima prima di arrivare a dare forma artistica all'idea.




Fin dal suo esordio come scultore, lei è stato considerato dalla critica un gotico. Si riconosce in questa lettura?

Nell’intervista l’intervistato è costretto ad intervistare se stesso. Ne scaturisce una verità per l’intervistatore ed una per se stessi. Quindi, due menzogne? No, due verità creativamente diverse.
La mente non segue il percorso del navigatore satellitare, esce spesso dalla via maestra per
curiosare tra i sentieri nascosti, la classicità nell’arte è la via maestra, io esploro sentieri aspri e sconosciuti camminando all’indietro, racconto le mie visioni da naufrago della civiltà industriale
terrorizzato dal cosiddetto ‘progresso’. Le mani modellano la terra alzandola verso il cielo in una tensione eternamente inappagata poiché spirito e materia sono la stessa cosa. Essere definito gotico mi fa pensare all’artigiano del passato remoto che vorrei essere”.

 Dal punto di vista della poetica quali sono i suoi riferimenti storico - culturali?


“Se di poetica si dovesse trovar traccia nel mio lavoro non mi assumo responsabilità e penso di poter affermare che di fronte all’opera, poetica pittorica o musicale che sia, ciascuno è
unico nelle sue emozioni, questo non garantisce né l’autenticità e nemmeno l’originalità
dell’opera ma certamente verità del proprio sentire e manifestare”.

Nel corso della sua carriera artistica lei ha prediletto il lavoro in terracotta, ma non ha disdegnato di realizzare anche opere in bronzo, alcune delle quali monumentali. Quale la differenza nel lavorare con l'una piuttosto che con l'altra materia? A livello emotivo quale delle due la soddisfa di più?

Data l’idea, la materia segue il pensiero nelle sue forme, il materiale è un fattore tecnico. Emotivamente mi dà piacere modellare la cera d’api, si intenerisce col calore delle mani ed è quasi come plasmare la propria pelle, si può riscaldare in bocca, ha sapore di miele e profuma di fiori”.

Cosa la fa sentire più vicino all'universo, manipolare la terra o realizzare un lavoro da lei concepito in tutto, che, però, poi viene eseguito materialmente da altri, come in genere oggi accade con le opere in bronzo o in marmo?

Dell’universo faccio parte a tempo pieno, nella gioia e nel dolore e la morte non mi separerà: sicut erat in principio, ora et sempre in omnia secula seculorum. Per l’esecuzione dei lavori importanti nel rinascimento c’erano le ‘botteghe’ dove i maestri insegnavano e gli allievi apprendevano non solo pennello e scalpello ma anche una visione del mondo. Oggi nelle accademie dipingono sulle tele con la scopa e il mondo lo vedono in televisione digitale ad alta risoluzione ma bassa qualità”.


Quale è il momento più importante dal punto di vista dell'ispirazione di un'opera? Per lei e' più emozionante il momento creativo o quello della fase conclusiva, quando il lavoro le si presenta finito?

Non è una spinta razionale ciò che induce l’uomo alla manifestazione creativa, ma, secondo me, è sperimentare l’attitudine che l’uomo possiede, tra le tante, di dare corpo, usando materia e colore ai molti aspetti della sua immaginazione. E non saprei nemmeno motivare il mio sentire così intimo con questo antico mondo archetipo magico fiabesco, eterna rigenerazione di vita di morte dove tutto torna sempre uguale e sempre diverso e sempre misterioso per la nostra mente ostinatamente perduta nella ricerca del ‘significato’”.

Per essere artisti occorre possedere necessariamente una componente narcisistica?

La teoria romantica del ‘genio’ ha radici molto antiche, solo nel Rinascimento viene associata al concetto di creazione artistica. In sintesi, prima del Rinascimento il giudizio di valore per un’opera d’arte si basava sull’estetica della ‘mimesi’ , dell’imitazione della realtà. Dopo, la ‘mimesi’ viene sostituita dalla creazione, si passa da un’estetica oggettiva ad una estetica soggettiva. L’interesse si sposta dall’opera alla persona dell’artista che, come spesso accade, vuol essere ancora più protagonista del suo stesso lavoro”.


In questi ultimi anni lei ha aderito a una linea di pensiero che guarda al mondo dell'arte contemporanea con occhio critico. In sintesi, quali sono le coordinate estetiche e culturali cui fa riferimento questa "corrente" artistica?

Faccio parte di un gruppo di artisti che rifiutando progresso e modernità riporta alla luce il mondo arcano della tradizione simbolica e degli archetipi dimenticati ma sempre operanti nel profondo della natura umana. Rappresentare il mito che ci racconta l’origine. Archetipo è l’evento o il personaggio che per destino, forza spirituale o avventura nella tradizione diventa mito”.

Quale è la differenza che fa di un artista un intellettuale piuttosto che un artigiano?
Tra le due figure oggi quale è quella che prevale? Lei quale sente più congeniale al suo modo di fare arte?

Per Vasari il genio aveva bisogno di essere fecondato dal sapere e riconosciuto dal potere, come avveniva al tempo di Lorenzo de’ Medici, despota illuminato. Il problema delle arti figurative di oggi è di non essere più nel rinascimento ma nel totale rimbambimento, un certo signor Cattelan, per esempio, vende brutti bambocci di plastica per milioni di dollari. Oggi prevale il ‘performer’ per cui persino Sgarbi è un ‘artista’, ma il teatro è un’arte. Borges affermava: “io sono ciò che ho letto, non ciò che ho scritto”. Io mi nutro di passato remoto, camminando tra le altissime colonne della cattedrale che sembrano le cupe foreste del nord, respirando la penombra che sa d’incenso accendo una candela troppo fioca per illuminare quell’immensità, vorrei che questa fosse la mia casa. Come Gaudì che viveva nella ‘Sagrada Familia’”.


Lo scultore Mario Zanoni è nato a Lugo di Romagna nel 1946. Vive e lavora a Sant'Agata sul Santerno. Ha al suo attivo decine di mostre collettive e personali, di cui alcune tenutesi all'estero. Le sue opere fanno parte di prestigiose collezioni pubbliche e private. Suoi lavori monumentali in bronzo si trovano a Ravenna e a Lugo.


Totem 
Lo scultore Mario Zanoni in una foto di qualche anno fa, mentre lavora
al monumento in bronzo Sol Invictus




sabato 23 aprile 2011

INTERVISTA A GIAN RUGGERO MANZONI





 
Gian Ruggero Manzoni



Il più eclettico degli artisti dal "sangue romagnolo"

di Marilena Spataro


E' lo scrittore che più di ogni altro ha contribuito a tenere in vita la tradizione del romanzo epico italiano. Con la pubblicazione, lo scorso anno, di “Una Macchia nel sole” (Edizioni del Girasole) ha posto l'ultima pietra al suo fortunato ciclo di quattro romanzi ad ambientazione storica, inaugurato nel 1993 con l’uscita di “Caneserpente” (Ed. Il Saggiatore). L'epica per Gian Ruggero Manzoni non è solo un'invenzione letteraria, ma la vita. La sua vita, fatta di viaggi avventurosi e di esplorazione. Esplorazione che non si ferma al mondo della cultura e dell'arte, ma che si addentra nei fatti per scoprire i più profondi significati e segreti di tutto ciò che è umano e che è carne viva e sangue pulsante. Nato da famiglia comitale, nel 1957, a San Lorenzo di Lugo, in quell'angolo di Romagna valliva che è terra di confine tra la provincia di Ravenna e quella di Ferrara, carica, perciò, di echi e di rimandi di diversa natura e appartenenza storica e culturale, Manzoni si è trovato a poter respirare, fin dalla più tenera età, atmosfere e ambienti di grande stimolo poetico e letterario, il che ne ha assecondato l'innata vena artistica. Il padre, Giovanni Manzoni, anche lui scrittore e storico di fama, e il cugino Piero Manzoni, tra i pittori più noti delle avanguardie del secolo scorso, hanno, poi, contribuito, con il loro esempio, a dare al giovane familiare l'incoraggiamento necessario per proseguire sulla strada intrapresa. Una strada che imboccherà la via del successo, quando, nel 1980, a solo 23 anni, Gian Ruggero Manzoni, diventa un caso letterario, con “Pesta duro e vai trànquilo/ dizionario del linguaggio giovanile” scritto in collaborazione con Emilio Delmonte, un libro edito da Feltrinelli, tuttora presente in quasi tutte le biblioteche universitarie europee e statunitensi.
La fama raggiunta non sarà per Manzoni un punto di arrivo, ma solo un inizio. Seguiranno, negli anni, romanzi, raccolte di poesie, saggi, lavori pittorici. Una produzione ricchissima ed eclettica, perennemente protesa verso la scoperta di linguaggi artistici innovativi e personali. In una sfida con se stesso che ancora continua.

Qual è il filo conduttore attraverso cui la componente epica si integra con la componente storica nei suoi romanzi?

“E' la matrice storica degli stessi, cioè l’aver affrontato in queste quattro narrazioni, Caneserpente, Il morbo, La Banda della Croce e Una macchia nel sole, tre momenti epocali importantissimi, che molto mi stanno a cuore, riguardanti la storia moderna, cioè il periodo della Rivoluzione Francese, il nostro Risorgimento e la Seconda Guerra Mondiale, vista dalla parte dei vinti poi dei vincitori, quindi l’aver raccontato tramite essi imprese indubbiamente epiche, vissute da personaggi realmente esistiti i quali, spingendosi all’estremo, osando, senza esclusione di colpi, hanno dato vita a situazioni esistenziali d’azione condotte con grande coraggio e dedizione, seppure, a volte, risultanti di massima ed efferata spietatezza, ma pur sempre in nome di un ideale per il quale, detti personaggi, erano disposti anche a dare la vita”.

Il movente culturale e poetico che la spinge a muoversi sul terreno della narrazione epica, invece, qual è?

“Direi la ricerca del bello, del bel gesto, dell’essere pronti anche alla morte cercando, in tale sacrificio, di dare dignità a un’intera esistenza. Quindi alla commozione che da ciò sgorga. In effetti reputo l’esistenza umana null’altro che un continuo prepararsi alla morte, quindi ogni gesto in essa vissuto deve sempre contenere in sé una sorta di ritualità, di sacra liturgia, di ‘senso’, di profonda responsabilità, come poi, un tempo, in tale modo, si credeva sia in occidente sia in oriente. Quindi parlerei del mio fare in narrativa come di una perdurante sacralità epica, quindi non solo di epica; una sacralità rivolta al bello e, di conseguenza, anche all’etico, al richiamo etico”.

Solo alcuni decenni fa la critica letteraria considerava il romanzo in netto contrasto con il racconto epico. Cosa è cambiato da allora? E in quale misura il suo lavoro ha contribuito a questo ripensamento?

“Da allora sono crollate le ideologie e l’Occidente è in piena crisi d’identità, e non mi pare poco, in modo che il far ricordare da dove veniamo è diventato uno dei primi motivi del mio fare arte. Tramite l’indagare nella memoria, del singolo e collettiva, il favorire il ricordo, il rendere noto quali siano stati i processi storici che ci hanno portato alla situazione attuale sono divenuti tra i fattori portanti della mia creatività letteraria e non solo. Nel mio piccolo ho quindi ridato voce a una sorta di orgoglio dovuto a un’appartenenza, a una determinata cultura, a una tradizione, e ciò mi viene riconosciuto, essendo considerato tra quei pochi intellettuali italiani che ancora credono con emozione a una rinascita nazionale poggiante sul nostro sapere classico-umanistico e sull’esistenza dei tanti che hanno dato la vita al fine che l’Italia potesse considerarsi degna di fronte agli occhi del mondo”.

Oggi, quali sono gli elementi distintivi del genere epico rispetto agli altri generi letterari?

“La vita di chi scrive. Il come lo scrittore si sia speso e si spenda in vita. Coloro che dicono di scrivere con e di epica non hanno mai vissuto alcunché al di fuori delle quattro mura domestiche e delle tagliatelle che giornalmente prepara loro la mamma. Sono dei piccoli Salgari che hanno delegato altri ad agire o, meglio, a vivere al posto loro. Mai come ora arte e vita devono tornare a essere una cosa sola. Se non vivi epicamente non puoi scrivere di epica. Se non sei un sacerdote non puoi dire Messa. Io la vedo così. Ecco perché non credo ai teorizzatori della New Italian Epic. Ecco perché sorrido quando i Wu Ming, Carlo Lucarelli, Antonio Scurati, Giancarlo De Cataldo e compari la raccontano, dicendosi dei porta bandiera. Mi dispiace per loro ma non sono credibili. Mai sono scesi in campo, mai sono stati sfiorati dalle pallottole o si sono scazzottati con dei malesi sulle banchine di un porto. Poi perché non: Nuova Epica Italiana? Perché sempre in inglese queste definizioni?”.

Perché Gian Ruggero Manzoni scrittore predilige il romanzo storico? E come mai, in una narrazione di ampissimo respiro culturale e geografico, i personaggi vengono puntualmente ricondotti, in un modo o nell’altro, alla terra di Romagna?

“Perché credo alla storia come Magistra vitae e perché sono un assertore del Genius loci. In primo luogo sono romagnolo della Bassa, poi italiano, quindi europeo. La geografia è importantissima per definire una poetica riconoscibile. Infine siamo, tutti, risultanze di una terra di appartenenza e di quegli usi e costumi. Di quel clima. Di quel carattere”.

Come ha detto, lei è romagnolo, seppure il suo continuo viaggiare e a volte il vivere lontano dalla sua terra anche per anni, comunque, puntualmente, lei sceglie di ritornare alle sue origini. Qual è il senso profondo di questa scelta?

“Il Sangue Romagnolo, come scrisse Edmondo De Amicis nel suo bellissimo e struggente libro Cuore. E non scherzo nel dirlo, badi bene. Libro che va ripreso in toto”.

Quanto, a suo parere, in una società sempre più globalizzata, anche dal punto di vista dell’espressione culturale e artistica, può avere valore mantenere il legame con le proprie radici?

“Le radici sono tutto. Chi non ha radice non esiste. Non è. Nessuna tradizione culturale presente al mondo ha mai negato l’importanza della radice, dalle costruzioni culturali più semplici a quelle più complesse, anzi, lo spirito di appartenenza è sempre stato esaltato. Comunque ogni uomo ha una sua radice, anche i popoli nomadi l’hanno, appunto il nomadismo, così scriveva Spengler. Noi si è come un albero, per usare un’immagine zen. Abbiamo le radici in terra e la chioma sono le nostre radici in cielo, mentre il fusto serve al fine di congiungere il micro al macro, una parte al tutto, all’Assoluto”.

Pensa che il romanzo e la letteratura a tutt’oggi siano investiti di una qualche funzione sociale ed etica, o le coordinate cui fare riferimento ormai sono altre?

“Io scrivo tenendo sempre presente il sociale e il senso etico, nonché il piacere estetico, così come già le ho detto. Che altro esiste al di là di questi elementi? Forse lo sbandamento generale, la perdita di punti di riferimento, il vacuo, l’effimero, l’imbecillità che contraddistingue il genere umano? Sì, esistono, ma li lascio narrare ad altri. Ovviamente altri che poi non leggo. Sono molto stanco di tutto questo vuoto, di questo nulla d’accatto spacciato per sostanza, spacciato per cultura. Di queste storie minimali vendute come fossero l’Iliade o l’Odissea. Non sopporto questa mediocrità dilagante”.

Più volte lei ha sottolineato che la sua visione del mondo è imprescindibile da una visione estetica delle cose. Può spiegarci brevemente la portata di tale affermazione?

“In breve: se non si ha la capacità di riconoscere il bello e il sublime là dove prendono forma non si è. E per bello e sublime intendo anche il brutto ricercato e l’antisublime, che poi divengono, nelle mani dell’artefice, dell’artista, un bello e un sublime anch’essi, ad esempio leggi Celine oppure prendi un quadro di Bacon o una scultura di Giacometti”.

La sua Weltanshauung è in qualche modo riconducibile alle sue origini romagnole e alla sua formazione culturale giovanile? Quanto tutto ciò ha influenzato il suo linguaggio artistico e letterario?

“Totalmente. Il mio fare arte è una risultanza di quel che sono, di quello che sono stati mia madre e mio padre, i miei nonni, i miei avi e tutti coloro che in questa nostra geografia fisica e socio culturale hanno vissuto. Dicendo ciò non voglio assolutamente negare le matrici altre, anzi, reputo che solo conoscendo da dove si proviene si può imbastire un dialogo produttivo con un altro da te che sa altrettanto bene dal dove arriva. Ad esempio io capisco benissimo gli italiani del sud, i russi, gli islamici che sanno di esserlo, cioè che non hanno tradito il loro essere, i loro archetipi, le loro credenze, perché, da parte mia, mai ho tradito il mio essere. Da ciò scaturisce la mia curiosità nei confronti dell’altro. Da ciò nasce il piacere di conoscerlo sempre meglio”.

Oltre che scrittore e poeta, lei è anche pittore e critico d’arte, questa varietà di linguaggi e interessi culturali le conferisce una patente di intellettuale a tutto campo, dandole la possibilità di guardare alla realtà da un osservatorio privilegiato attraverso più angoli visuali. Alla luce di questo, qual è la sua lettura del mondo di oggi, soprattutto per quanto riguarda lo stato delle arti figurative e della letteratura? Qual è il loro futuro e cosa lei auspica in merito?

“Non sono ottimista. L’Europa e in particolare l’Italia stanno precipitando in caduta libera sotto infiniti punti di vista, e ciò si riflette pesantemente su ogni tipo di disciplina espressiva. La rivoluzione in atto, quella definita del Tecnologico Avanzato, sta velocemente segando le gambe a tutto ciò che è patrimonio ‘artigianale’. Le culture avanzanti non ci stanno dando tregua e noi non siamo in grado di tenere testa a quegli urti che stanno giungendo qui dai quattro angoli del pianeta. Si risponde o arroccandosi sterilmente oppure tramite un lassismo globalistico generalizzato. Non esiste una via di mezzo. Non si capisce che solo avendo coscienza, conoscenza di sé stessi si può dialogare con gli altri esseri umani. Qui abbiamo i soldi e la pancia ancora piena, ma sempre più manca la cultura, manca l’elevazione culturale per poi trasformare tale benessere in bello e in bene. Infine siamo ignoranti. Siamo ricchi, pingui e ignoranti, e ciò è l’anticamera della fine”.

Quanto ai suoi progetti, a cosa sta lavorando attualmente? E a quando il suo prossimo romanzo? E’ lecito chiederle di anticiparci qualcosa?

“Di recente è uscita la mia traduzione dell’Esodo biblico che ho fatto per l’editore Raffaelli di Rimini. Un lavoro che mi ha preso per oltre un anno. Una magnifica esperienza perché ho ficcato le mani in quello che è il libro per antonomasia da cui sgorga la nostra tradizione. Adesso, sempre per l'editore Raffaelli, sto traducendo la Genesi. E, a breve, dovrebbe uscire un mio nuovo romanzo in cui, appunto, tratto della storia della mia famiglia in relazione alla Romagna, dove poi la mia gens dimora da oltre cinquecento anni”.

Un dipinto di Gian Ruggero Manzoni

domenica 3 aprile 2011

GIOVANNI SCARDOVI. SOLIDA IMAGO

Scolpire la contemporaneità.
La suggestione che nasce dal mitico e dal simbolico

di Marilena Spataro


 

Un incipit che è una fotografia impietosa del mondo dell'arte contemporanea e che introduce fin dalla prime battute una lucida, quanto serrata, critica agli attuali sistemi dell'arte senza indulgenze per nessuno: musei, gallerie, sono colpevoli, per Giovanni Scardovi , autore del libro Solida Imago , della crisi che oggi attraversa le arti figurative tanto quanto gli stessi artisti, sempre più attenti a soddisfare le richieste del mercato o a stupire il pubblico con boutade a effetto, piuttosto che a esprimersi sulla base di una spontanea visione artistica ed estetica.
"Queste sale, questi spazi dove riposano le opere del Novecento fino a questo inizio secolo, in un itinerario espositivo che ispira un senso di sacralità cimiteriale e dove hanno dimora immagini e forme come memorie, in scansione elencativa: è il museo, invenzione recente dove la veglia della ragione genera separatezza, ed è infatti un contenitore separato dalla quotidianità del nostro vivere che osservo percorrendo i corpi di queste immagini", così esordisce Scardovi, che subito dopo s'interroga: "ma perché l'opera che in epoca rinascimentale era parte integrante dello spazio vitale dell'architettura di interni o esterni ora riposa in questa sorta di enciclopedia visiva che si spalanca nella separatezza della mia osservazione?". La risposta a questo quesito e ai tanti altri che emergono nel corso del ragionamento sviluppato nelle pagine successive di Solida Imago verranno fornite dall'autore attraverso una decifrazione critico poetica sul manifestarsi dell'arte nella contemporaneità e con una lettura interpretativa epifanica delle immagini plastiche di alcuni artisti operanti oggi nell'ambito della scultura con tendenze simboliche, surreali e allegoriche.
In collegamento con la presentazione di Solida Imago, è stata, perciò, allestita una mostra itinerante di alcune sculture degli artisti presenti nel saggio di Giovanni Scardovi che testimonia plasticamente la visione critico poetico che li analogizza. Partita nello scorso autunno dalle sale del museo Marfisa d'Este di Ferrara, la mostra è stata in Febbraio del 2010 alle Pescherie della Rocca di Lugo e successivamente al Castello di Cento di Ferrara. IL calendario del 2011 è in corso di programmazione. Le opere che saranno esposte nelle prossime mostre sono sculture di Maurizio Bonora, Ilaria Ciardi, Gianni Guidi, Sergio Monari, Giovanni Scardovi, Sergio Zanni, Mario Zanoni.

Da dove nasce l'esigenza di scrivere un saggio critico come Solida Imago?

"Solida imago nasce da due moventi, uno consistente nella messa in discussione del mostrismo contemporaneo; con il termine mostrismo intendo deprecare la costante, praticamente totalizzante, con cui si manifesta l'arte nella contemporaneità, a differenza di altre epoche in cui l'opera veniva a essere stanziale negli esterni e interni dell'architettura e a contatto con la quotidianità dell'esistere.
Nella contemporaneità, la mostra, la galleria e i musei hanno assunto le modalità prioritarie di divulgazione dell'opera d'arte, con ciò non è che io intenda affermare che musei e gallerie siano da eliminare, ma intendo invece cogliere come questo manifestarsi sia diventato per lo più l'unico approccio all'opera. L'opera ha perso così quella dimensione sacrale e unica che deteneva in epoca pre illuminista assumendo invece la costante di un prét à porter che ne limita e ne ghettizza l'esistenza. Il secondo movente è quello di un ritorno al mito come narrazione che le neoavanguardie del secondo Novecento hanno affondato: la perdita del sacro, come afferma l'architetto Mario Botta, ha creato nella contemporaneità guasti profondi. Da qui l'attenzione che il mio testo rivolge nei confronti di scultori che si muovono nella visione del mito e del sacro".

 Quali sono le principali cause che hanno determinato il deterioramento, che lei denuncia, del panorama artistico attuale? Il suo libro è un j'accuse a tutto campo della contemporaneità, una provocazione o cos'altro?

"Le cause determinanti il deterioramento dell'arte nella contemporaneità sono di diversa natura, da una parte la ghettizzazione prodotta da gallerie e musei rispetto a quella che era l'abitabilità dell'opera, come abbiamo detto precedentemente, nelle strutture architettoniche, dall'altra la banalizzazione dell'opera stessa determinata dal neo dadaismo imperante dell'oggetto vissuto come installazione, oggetto che produce più una boutade provocatoria che la realtà di un'opera d'arte. Dobbiamo sottolineare che l'oggetto provocatorio del Dada, da Duchamp in poi, ha portato a concepire opera d'arte, un sacco di carbone, come avviene nell'opera di Kunuellis, mentre, fuori dalla convenzionalità della galleria è solamente oggetto privo di significato. Il neo Dada ha così voluto fare assumere alla quotidianità del banale la valenza di opera, producendo un impoverimento del linguaggio e una nientificazione dell'immagine".

Le pagine da lei scritte, oltre ad aprire un dibattito sul modo di fare e d'intendere l'arte oggi, potrebbero in qualche modo contribuire a innescare una critica di più ampio respiro, che coinvolga anche gli aspetti dell'assetto della società e delle sue istituzioni?

"Il mercatismo e la mercificazione dell'opera che la galleria ha prodotto è frutto della logica capitalista contemporanea. E' la negazione di una concezione sapienziale dell'arte, la bellezza e l'evocazione dell'immagine è stata sacrificata alla trovata".

Quali i riferimenti storici filosofici ed estetici su cui si fonda la sua visione dell'arte?

"I miei riferimenti riguardano il sacro, il mito e le istanze simboliche e allegoriche. Rifondare l'arte è anche rifondare la società".

Quali le coordinate sociali etiche ed estetiche per ripartire?

"Rifondare l'arte è rifondare la società e rifondare la società è rifondare l'arte. Un sistema che riesca a fondere in armonia gli elementi artistici e architettonici è ancora ipotizzabile o non ci resta che guardare con nostalgia al passato? Per ora non ci resta che guardare con nostalgia al passato. E come dice Marc Maffesoli: ritorniamo all'antico, sarà un progresso".

Pensa che l'arte possieda gli antidoti giusti per salvarsi dall'omologazione della società attuale? Quali sono questi antidoti e come vanno "utilizzati"?

"Gli antidoti per salvarsi dalla banalizzazione contemporanea sono dati dalla messa in discussione della contemporaneità e dal ritorno al pensiero archetipico, che etimologicamente significa "tipi dell'origine". In una società mediatica come la nostra, fondata sugli effetti speciali, pensa ci sia ancora posto per lo stupore che nasce nell'ammirare un lavoro artistico? Non mi risulta che si siano verificate davanti a opere contemporanee sindromi di Stendhal, lì l'approccio all'opera era basato su una perdita che portava al sublime, mentre l'opera contemporanea spesso produce, nella perdita del tragico, il comico".

Come si inseriscono nel suo discorso sull'arte gli scultori di cui descrive i lavori in questo suo libro?

"Quale il linguaggio che li analogizza? Esistono analogie tra gli scultori trattati nel libro che si fondano su una costante mitica e una sospensione magica dell'immagine, le opere in questione muovono da moventi surreali allegorici e fondamentalmente iconici, una sorta di religiosità le accomuna nelle differenze. In questo l'immagine detiene la forza evocativa di una tradizione del significato che ci riporta alle simbologie dell'origine, simbologie che, come afferma Mircea Eliade, sia pur rimosse dal razionalismo contemporaneo, ci appartengono nel profondo e ritornano in un ossimoro che unisce passato e futuro".

Alla luce di quanto fin qui sostenuto, ritiene ci si ancora un futuro per l'arte?

"Sì, se si riguarderà al passato".

Pensa che il suo discorso debba continuare?

"Penso che il mio discorso faccia parte di un'attenzione polemica europea nei confronti dell'arte contemporanea che in Italia non si è ancora manifestata. Occorre considerare a questo proposito, la critica in Francia di Jean Clair nel suo saggio "Critica della modernità" e le feroci affermazioni di Marc Maffesoli nel suo testo critico "Parigi , New York e ritorno, viaggio nell'arte contemporanea", in cui la poetica della Pop art viene rifiutata nei suoi fondamenti estetici. Ciò è dimostrato anche dall'esultanza con cui artisti e critici americani hanno accolto la crisi del sistema dell'arte paragondola alla bolla speculativa economica di questi ultimi anni".

Lo farà da critico, da scultore o da poeta?

"Penso che occorra in questo caso agire su tutti i fronti perché il malessere della contemporaneità attraversa oltre i linguaggi dell'arte anche quelli della letteratura. I guasti prodotti dalle neo avanguardie fanno parte di una logica in cui l'artista è stato più sperimentatore di modalità del comportamento espressivo che interprete di una visione del mondo".


Lo scultore Giovanni Scardovi

giovedì 17 marzo 2011

DALL’UNITA’ D’ITALIA AL BANDITISMO, ALLE MAFIE

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di Marilena Spataro

Conquistare con il ferro e con il fuoco il Regno delle Due Sicilie, ricorrendo a un metodico quanto brutale saccheggio del suo territorio e delle sue risorse economiche e umane, come hanno fatto i Savoia in nome dell’unità nazionale, non ha portato fortuna all’Italia. Le conseguenze di questa scelta militare scellerata e delle politiche post unitarie messe in atto dai piemontesi, hanno dato vita a una questione meridionale rimasta irrisolta per cento cinquanta anni, tanto è, infatti, il tempo passato dall’unità ad oggi. Pensare di risolvere un così grave problema con interventi straordinari o esclusivamente a carattere assistenziale, attraverso l’istituzione di enti vari, in primis la Cassa del Mezzogiorno, come ha fatto la classe politica della prima Repubblica, o pensare che varando un sistema di federalismo fiscale che responsabilizzi gli amministratori locali nella spesa pubblica, quindi anche quelli del Meridione, come tenta di fare l’attuale Governo, in perfetta sintonia con le richieste leghiste, senza analizzare a fondo le cause che hanno portato al gap economico e sociale tra Nord e Sud, significa semplicemente seguire delle cure palliative che lasciano il tempo che trovano, non certo provvedere con efficacia e determinazione a dare risposte adeguate a una situazione sempre più drammatica, la quale, nella sua marcescenza, rischia di travolgere l’intero sistema paese. Aver abbandonato un territorio a se stesso e alla sua miseria dopo averlo depredato di tutto, ha prodotto, tra l’altro, un terreno di fertilissima coltura per fenomeni di grande pericolosità sociale, quali brigantaggio prima, mafie poi. Tutto ciò è intuibile da chiunque abbia il buon senso e, soprattutto, la buonafede di guardare alle vicende storiche e ai relativi fenomeni socio economici con rigore e serietà da studioso (il che, forse è un po’ difficile per coloro che non abbiano bazzicato più di tanto le aule universitarie, fermandosi alle analisi superficiali dei libri di storia delle elementari o di qualche autore del passato o anche di qualche autore più recente, ma volutamente cieco nel suo essere organico a un certo pensiero e a certi interessi che arrivano dal Nord), ed è quanto veniva puntualmente sottolineato, fin dagli inizi del ’900, dalle lucide analisi di meridionalisti del calibro di Labriola, Salvemini e Gramsci, intellettuali che avevano a cuore la soluzione dei problemi del Sud in funzione ed in nome dell’interesse dell’intera Nazione, non certo sospetti di stare dall’una piuttosto che dell’altra parte di essa. Al riguardo Antonio Gramsci affermava: «Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti». In realtà dopo questa prima fase cui fa riferimento lo studioso e politico sardo, al Sud si assiste a fenomeni di brigantaggio diffuso di sempre maggiore pericolosità sociale. Altrove, gli episodi di banditismo, che pure esistevano, rimarranno circoscritti nell’ambito della delinquenza comune o al massimo della lotta di qualche nobile in rivolta contro i poteri ufficiali di turno, senza mai, però, trasformarsi in forme di brigantaggio organizzato come quelle instauratesi in Meridione. Così è stato, ad esempio in Romagna, dove il banditismo si manifesta già nel ’500 a opera di un nutrito manipolo di malfattori toscani, romagnoli e marchigiani, che scorazzavano ai confine fra la Romagna toscana e quella pontificia, capeggiati dal Duca di Montemariano, Alfonso Piccolomini, il quale, però, più che da spirito di banditismo comune era mosso da sentimenti di ribellione contro i poteri costituiti del tempo. Sarà, piuttosto, durante tutto l’800 che nell’area romagnola si assiste a un fenomeno di criminalità a carattere banditesco di un certo peso, con la presenza di personaggi d’insolita ferocia e senza scrupoli, quali, ad esempio, Stefano Pelloni, di Boncellino di Bagnacavallo, meglio conosciuto come il “Passator cortese" in seguito a una ingiustificata fama popolare che lo trasformava in una specie di Robin Hood. In queste zone, come pure nelle altre regioni centro settentrionali, il banditismo, verrà definitivamente estirpato proprio in coincidenza dell’unità d’Italia: l’azione militare di un esercito ormai moderno e organizzato e, soprattutto, le politiche di crescita economica e sociale messe in atto dai nuovi governanti, furono le armi vincenti nel determinane la sconfitta. Nel Meridione, invece, la repressione generalizzata e di massa dell’esercito sabaudo e dei garibaldini durante la guerra contro il Regno delle Due Sicilie e il totale disinteresse delle nuove classi dirigenti per il territorio e per le popolazioni del Mezzogiorno, contribuiranno non solo ad acuire il fenomeno del brigantaggio, ma a farlo diventare l’anticamera di un ben più insidioso fenomeno delinquenziale, quello delle mafie. Queste di lì a poco si sarebbero irrimediabilmente insediate pressoché in tutto il Sud, radicandosi particolarmente in Campania, Calabria e Sicilia. Qui, a fronte di una società in completa dissoluzione e di una popolazione disperata e sbandata, contro cui lo stato unitario continuava ad agire con metodica brutalità al fine di privarla di ogni identità culturale e delle proprie tradizioni, persino di quelle religiose, si assiste a una strana combine d’interessi tra alcune figure del brigantaggio e della malavita organizzata e alcune, vecchie e nuove, classi sociali locali. Per servire il proprio tornaconto, tutti questi attori sociali si compatteranno, più o meno consapevolmente, dirigendo la propria azione a favore degli interessi del Nord, a tutto svantaggio di quelli del loro territorio. Il vecchio era rappresentato dai soliti personaggi gattopardeschi, nobili e latifondisti famelici, da sempre avidamente attaccati ai propri egoismi e privilegi; le loro famiglie fin dall’epoca delle conquiste napoleoniche si andavano alleando ora con l’una ora con l’altra parte politica a secondo di chi stesse vincendo, perciò, una volta erano borbonici, la volta successiva di fede liberale. Questi notabili erano avvezzi ad agire nell’ombra e con l’insidia per favorire il proprio interesse, ingaggiando personaggi senza scrupoli, spesso briganti promossi a mezzadri, per mantenere con metodi di sopraffazione violenta in stato di schiavitù chi lavorava per loro. Il nuovo era rappresentato da antichi mezzadri, che, con l’aria diversa che tirava, puntavano a conquistare autonomia e potere rispetto ai loro padroni. C’erano poi altre figure emergenti della borghesia: piccoli proprietari terrieri con l’aspirazione di mettere le mani su altri appezzamenti, soprattutto del demanio, famiglie di artigiani, molte delle quali sinceramente liberali e che, avendo spesso pagato con un ampio tributo di sangue la loro fede, ora erano ansiose d’incassare dai piemontesi al governo un qualche riconoscimento per la fedeltà dimostrata. C’era, infine, una varietà di impiegati e di piccoli burocrati il cui principale interesse, era, come per la nobiltà e per i vecchi ricchi, mantenere, e, magari, ampliare i propri privilegi. L’azione combinata di questi nuovi e vecchi ceti sociali, che ben presto sarebbero diventati dominanti nella gestione della politica e dell’economia del Sud post unitario, generò nel popolo, grazie al continuo esercizio del sopruso, della sopraffazione, e soprattutto dell’inganno e del ricatto, un senso di precarietà permanente e di bisogno continuo. Malaffare, corruzione, intrigo, illegalità a tutti i livelli, è stato l’unico esempio fornito nel tempo da quella “leadership” alle classi popolari, che ormai prive di punti di riferimento e anche delle migliori forze produttive, visto che gli uomini più giovani erano emigrati in massa in cerca di lavoro, sfiduciate e stremate, vedevano in questi comportamenti la norma cui adeguarsi. E’ in tale contesto, di totale sfascio morale, che in Campania, Calabria e Sicilia, nascono, come già detto, le mafie, diffondendosi poi in quasi tutto il Sud. Non è casuale che i primi documenti sui rituali mafiosi risalgano alla fine dell’800. Le mafie, si sa, sono associazioni a delinquere segrete che hanno come unico fine il profitto e l’interesse dei propri affiliati e delle loro famiglie. Codici d’onore, cerimonie d’iniziazione improntate a rituali su Santi o Arcangeli o leggende secondo cui i capi di queste organizzazioni agivano per il bene comune, erano espedienti architettati per ottenere consenso dalla gente e obbedienza da parte dei propri affiliati, soprattutto della manovalanza, i cosiddetti picciotti. L’interesse dei mafiosi era allora, come lo è oggi, quello di arricchirsi illecitamente, servendosi del crimine e dell’assassinio, a spese dei più deboli. Il medesimo interesse, allora, come ora, dei politici e delle classi dirigenti del Sud. E ormai non solo del Sud. Logiche ed interessi che di fatto coincidono e che con il tempo si intrecciano e si accavallano, identificandosi sempre più spesso sia nella brutalità dei metodi sia negli uomini, in un esercizio arbitrario e cieco del potere, che disprezza ogni legalità, diritto altrui e regola democratica. Accade così che nella fase post unitaria parecchi briganti, fattisi tali per ribellione o per sopravivenza, si trasformino in uomini di fiducia di latifondisti ed agrari, addetti a mantenere l’ordine tra i lavoratori con la violenza e la sopraffazione. E accade così che molti briganti si trasformino in mafiosi. Esemplare, al riguardo, il caso di Salvatore Giuliano, che con la strage di Portella della Ginestra, si pone non più da bandito, quale era stato fino ad allora, ma da mafioso al soldo del latifondo. E Dio solo sa di quale altro oscuro potere. Con l’avvento della Repubblica e il lento instaurarsi di un sistema partitico corrotto, clientelare e di malaffare consociativo tra i
vari partiti dell’arco costituzionale, scopriremo che, in omaggio a questo vecchio schema, i mafiosi possono fare i politici e che i politici possono tranquillamente essere dei mafiosi. Oggi, in piena seconda Repubblica, apprendiamo che a 150 anni dalla sua nascita, l’Italia è unita sì, ma solo nelle mafie. Per il resto la spaccatura tra le due, forse anche tre, Italie, visto che il Centro sembra muoversi sempre più sulla base di istanze e d’interessi autonomi, è ormai in atto. Alla Lega Nord va riconosciuto il merito di aver posto con vigore, seppure a volte con toni eccessivi e persino folcloristici, l’accento sulle contraddizioni su cui si reggeva da un secolo e mezzo un sistema unitario nato dalla cattiva coscienza di chi lo ha voluto e dall’ipocrisia di chi, successivamente, lo ha sostenuto, ostinandosi a tenere unito ciò che di fatto, da sempre, era disunito. La disparità economica e sociale tra Settentrione e Meridione emersa durante e dopo il processo unitario col tempo si è acuita, fino ad apparire insanabile, così come sta accadendo oggi, dove al risentimento del Sud che si percepisce trattato da straccione, fa eco un’insofferenza, a volte persino un disprezzo razzista, di un Nord che si sente oltremodo sfruttato. Tutto ciò in un’interminabile polemica sulle reciproche responsabilità. Fino a qualche anno fa il Nord, infatti, appariva rassegnato a erogare all’infinito parte delle sue risorse finanziarie per il “mantenimento” sic et simpliciter del Sud, mentre il Sud si adeguava a questa logica. Ma oggi non è più così. In Settentrione si sta diffondendo, infatti, l’idea di un Meridione cialtrone e sfruttatore che, perciò, andrebbe lasciato al suo destino, parimenti in Meridione si percepisce fastidio per un Settentrione considerato opportunista nel suo assistenzialismo, in quanto, si rimprovera, il meccanismo assistenziale è stato determinante nel condannare il territorio meridionale all’emarginante ruolo di risorsa di manodopera per le aziende del nord, di bacino per il consumo dei beni da queste prodotte e di discarica dei loro rifiuti più tossici e velenosi. Tutti questi discorsi hanno portato da parte meridionale a un rivendicazionismo esasperato e qualunquista in nome del “mal tolto” e da parte settentrionale a vocazioni autonomiste che, se spinte all’estremo, rischiano di trasformarsi in pericolose tentazioni secessioniste. Come è noto il secessionismo è un tema molto caro al leader del Carroccio, Umberto Bossi, che vi ricorre tutte le volte in cui gli serve scaldare gli animi di quella parte di elettorato leghista più esigente in fatto di antimeridionalismo. Ma, alimentare l’odio non giova a nessuno; se qualcuno si illude del contrario per posizioni di comodo o interessi di bottega, pecca di scarsa lungimiranza. Peraltro, ignorare il problema, come fa l’attuale classe politica, che si nasconde dietro una futura, e altrettanto vaga, riforma sul federalismo fiscale, contrabbandandola come la panacea capace di sanare ogni male, è ugualmente pericoloso. Continuare con gli interventi straordinari al Sud, magari attraverso l’istituzione di una banca ad hoc, come ipotizzato dall’attuale Governo, significa, infatti, continuare a nutrire un sistema di clientele politiche, di malaffare economico – finanziario, di malgoverno e di mafie, le quali, come evidenziano le inchieste giudiziarie in corso sull’Expo 2015 di Milano, non solo non si sono fermate ai territori meridionali, ma hanno allungato i propri tentacoli con prepotenza pervasiva sul resto del territorio nazionale. La questione meridionale e la questione morale in Italia viaggiano di pari passo. Risolvere l’una, significa dare automaticamente risposte anche all’altra. A tal fine occorre individuare una classe politica nuova, lontana da qualunque altro potere, che non sia quello conferito con mandato democratico dai cittadini, capace di porre mano responsabilmente a una riforma istituzionale di ampia portata che dia concreta attuazione a quelle istanze di vero federalismo che ultimamente giungono dalla parte più consapevole del Nord così come da quella più matura e identitaria del Sud, che pure esiste e che va emergendo, in uno scatto di orgoglio e di dignità ritrovata, con grande forza. Messi insieme, questi elementi non fanno che segnalare con chiarezza un clima e una volontà inediti, e provenienti dal “basso”, tendenti a obiettivi di democrazia, di libertà e di uguaglianza, quali valori fondati sul rispetto delle differenti identità dei territori e dei loro cittadini, il che, se tenuto per buono, fornirebbe il sentiero a chi ci governa per unire in concreto quello che, invece, a causa dell’arroganza sabauda, della forza bruta del suo esercito e di un indefinito, quanto insincero, senso di identità nazionale, è rimasto per 150 anni un atto unitario formale, valido esclusivamente sulla carta.

Copertina del libro Terroni di Pino Aprile
 Copertina del libro "Terroni" di Pino Aprile

Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero 6 di "ALI", rivista letteraria diretta dallo scrittore, poeta e teorico dell'arte, Gian Ruggero Manzoni

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