Gian Ruggero Manzoni
Il più eclettico degli artisti dal "sangue romagnolo"
di Marilena Spataro
E' lo scrittore che più di ogni altro ha contribuito a tenere in vita la tradizione del romanzo epico italiano. Con la pubblicazione, lo scorso anno, di “Una Macchia nel sole” (Edizioni del Girasole) ha posto l'ultima pietra al suo fortunato ciclo di quattro romanzi ad ambientazione storica, inaugurato nel 1993 con l’uscita di “Caneserpente” (Ed. Il Saggiatore). L'epica per Gian Ruggero Manzoni non è solo un'invenzione letteraria, ma la vita. La sua vita, fatta di viaggi avventurosi e di esplorazione. Esplorazione che non si ferma al mondo della cultura e dell'arte, ma che si addentra nei fatti per scoprire i più profondi significati e segreti di tutto ciò che è umano e che è carne viva e sangue pulsante. Nato da famiglia comitale, nel 1957, a San Lorenzo di Lugo, in quell'angolo di Romagna valliva che è terra di confine tra la provincia di Ravenna e quella di Ferrara, carica, perciò, di echi e di rimandi di diversa natura e appartenenza storica e culturale, Manzoni si è trovato a poter respirare, fin dalla più tenera età, atmosfere e ambienti di grande stimolo poetico e letterario, il che ne ha assecondato l'innata vena artistica. Il padre, Giovanni Manzoni, anche lui scrittore e storico di fama, e il cugino Piero Manzoni, tra i pittori più noti delle avanguardie del secolo scorso, hanno, poi, contribuito, con il loro esempio, a dare al giovane familiare l'incoraggiamento necessario per proseguire sulla strada intrapresa. Una strada che imboccherà la via del successo, quando, nel 1980, a solo 23 anni, Gian Ruggero Manzoni, diventa un caso letterario, con “Pesta duro e vai trànquilo/ dizionario del linguaggio giovanile” scritto in collaborazione con Emilio Delmonte, un libro edito da Feltrinelli, tuttora presente in quasi tutte le biblioteche universitarie europee e statunitensi.
La fama raggiunta non sarà per Manzoni un punto di arrivo, ma solo un inizio. Seguiranno, negli anni, romanzi, raccolte di poesie, saggi, lavori pittorici. Una produzione ricchissima ed eclettica, perennemente protesa verso la scoperta di linguaggi artistici innovativi e personali. In una sfida con se stesso che ancora continua.
Qual è il filo conduttore attraverso cui la componente epica si integra con la componente storica nei suoi romanzi?
“E' la matrice storica degli stessi, cioè l’aver affrontato in queste quattro narrazioni, Caneserpente, Il morbo, La Banda della Croce e Una macchia nel sole, tre momenti epocali importantissimi, che molto mi stanno a cuore, riguardanti la storia moderna, cioè il periodo della Rivoluzione Francese, il nostro Risorgimento e la Seconda Guerra Mondiale, vista dalla parte dei vinti poi dei vincitori, quindi l’aver raccontato tramite essi imprese indubbiamente epiche, vissute da personaggi realmente esistiti i quali, spingendosi all’estremo, osando, senza esclusione di colpi, hanno dato vita a situazioni esistenziali d’azione condotte con grande coraggio e dedizione, seppure, a volte, risultanti di massima ed efferata spietatezza, ma pur sempre in nome di un ideale per il quale, detti personaggi, erano disposti anche a dare la vita”.
Il movente culturale e poetico che la spinge a muoversi sul terreno della narrazione epica, invece, qual è?
“Direi la ricerca del bello, del bel gesto, dell’essere pronti anche alla morte cercando, in tale sacrificio, di dare dignità a un’intera esistenza. Quindi alla commozione che da ciò sgorga. In effetti reputo l’esistenza umana null’altro che un continuo prepararsi alla morte, quindi ogni gesto in essa vissuto deve sempre contenere in sé una sorta di ritualità, di sacra liturgia, di ‘senso’, di profonda responsabilità, come poi, un tempo, in tale modo, si credeva sia in occidente sia in oriente. Quindi parlerei del mio fare in narrativa come di una perdurante sacralità epica, quindi non solo di epica; una sacralità rivolta al bello e, di conseguenza, anche all’etico, al richiamo etico”.
Solo alcuni decenni fa la critica letteraria considerava il romanzo in netto contrasto con il racconto epico. Cosa è cambiato da allora? E in quale misura il suo lavoro ha contribuito a questo ripensamento?
“Da allora sono crollate le ideologie e l’Occidente è in piena crisi d’identità, e non mi pare poco, in modo che il far ricordare da dove veniamo è diventato uno dei primi motivi del mio fare arte. Tramite l’indagare nella memoria, del singolo e collettiva, il favorire il ricordo, il rendere noto quali siano stati i processi storici che ci hanno portato alla situazione attuale sono divenuti tra i fattori portanti della mia creatività letteraria e non solo. Nel mio piccolo ho quindi ridato voce a una sorta di orgoglio dovuto a un’appartenenza, a una determinata cultura, a una tradizione, e ciò mi viene riconosciuto, essendo considerato tra quei pochi intellettuali italiani che ancora credono con emozione a una rinascita nazionale poggiante sul nostro sapere classico-umanistico e sull’esistenza dei tanti che hanno dato la vita al fine che l’Italia potesse considerarsi degna di fronte agli occhi del mondo”.
Oggi, quali sono gli elementi distintivi del genere epico rispetto agli altri generi letterari?
“La vita di chi scrive. Il come lo scrittore si sia speso e si spenda in vita. Coloro che dicono di scrivere con e di epica non hanno mai vissuto alcunché al di fuori delle quattro mura domestiche e delle tagliatelle che giornalmente prepara loro la mamma. Sono dei piccoli Salgari che hanno delegato altri ad agire o, meglio, a vivere al posto loro. Mai come ora arte e vita devono tornare a essere una cosa sola. Se non vivi epicamente non puoi scrivere di epica. Se non sei un sacerdote non puoi dire Messa. Io la vedo così. Ecco perché non credo ai teorizzatori della New Italian Epic. Ecco perché sorrido quando i Wu Ming, Carlo Lucarelli, Antonio Scurati, Giancarlo De Cataldo e compari la raccontano, dicendosi dei porta bandiera. Mi dispiace per loro ma non sono credibili. Mai sono scesi in campo, mai sono stati sfiorati dalle pallottole o si sono scazzottati con dei malesi sulle banchine di un porto. Poi perché non: Nuova Epica Italiana? Perché sempre in inglese queste definizioni?”.
Perché Gian Ruggero Manzoni scrittore predilige il romanzo storico? E come mai, in una narrazione di ampissimo respiro culturale e geografico, i personaggi vengono puntualmente ricondotti, in un modo o nell’altro, alla terra di Romagna?
“Perché credo alla storia come Magistra vitae e perché sono un assertore del Genius loci. In primo luogo sono romagnolo della Bassa, poi italiano, quindi europeo. La geografia è importantissima per definire una poetica riconoscibile. Infine siamo, tutti, risultanze di una terra di appartenenza e di quegli usi e costumi. Di quel clima. Di quel carattere”.
Come ha detto, lei è romagnolo, seppure il suo continuo viaggiare e a volte il vivere lontano dalla sua terra anche per anni, comunque, puntualmente, lei sceglie di ritornare alle sue origini. Qual è il senso profondo di questa scelta?
“Il Sangue Romagnolo, come scrisse Edmondo De Amicis nel suo bellissimo e struggente libro Cuore. E non scherzo nel dirlo, badi bene. Libro che va ripreso in toto”.
Quanto, a suo parere, in una società sempre più globalizzata, anche dal punto di vista dell’espressione culturale e artistica, può avere valore mantenere il legame con le proprie radici?
“Le radici sono tutto. Chi non ha radice non esiste. Non è. Nessuna tradizione culturale presente al mondo ha mai negato l’importanza della radice, dalle costruzioni culturali più semplici a quelle più complesse, anzi, lo spirito di appartenenza è sempre stato esaltato. Comunque ogni uomo ha una sua radice, anche i popoli nomadi l’hanno, appunto il nomadismo, così scriveva Spengler. Noi si è come un albero, per usare un’immagine zen. Abbiamo le radici in terra e la chioma sono le nostre radici in cielo, mentre il fusto serve al fine di congiungere il micro al macro, una parte al tutto, all’Assoluto”.
Pensa che il romanzo e la letteratura a tutt’oggi siano investiti di una qualche funzione sociale ed etica, o le coordinate cui fare riferimento ormai sono altre?
“Io scrivo tenendo sempre presente il sociale e il senso etico, nonché il piacere estetico, così come già le ho detto. Che altro esiste al di là di questi elementi? Forse lo sbandamento generale, la perdita di punti di riferimento, il vacuo, l’effimero, l’imbecillità che contraddistingue il genere umano? Sì, esistono, ma li lascio narrare ad altri. Ovviamente altri che poi non leggo. Sono molto stanco di tutto questo vuoto, di questo nulla d’accatto spacciato per sostanza, spacciato per cultura. Di queste storie minimali vendute come fossero l’Iliade o l’Odissea. Non sopporto questa mediocrità dilagante”.
Più volte lei ha sottolineato che la sua visione del mondo è imprescindibile da una visione estetica delle cose. Può spiegarci brevemente la portata di tale affermazione?
“In breve: se non si ha la capacità di riconoscere il bello e il sublime là dove prendono forma non si è. E per bello e sublime intendo anche il brutto ricercato e l’antisublime, che poi divengono, nelle mani dell’artefice, dell’artista, un bello e un sublime anch’essi, ad esempio leggi Celine oppure prendi un quadro di Bacon o una scultura di Giacometti”.
La sua Weltanshauung è in qualche modo riconducibile alle sue origini romagnole e alla sua formazione culturale giovanile? Quanto tutto ciò ha influenzato il suo linguaggio artistico e letterario?
“Totalmente. Il mio fare arte è una risultanza di quel che sono, di quello che sono stati mia madre e mio padre, i miei nonni, i miei avi e tutti coloro che in questa nostra geografia fisica e socio culturale hanno vissuto. Dicendo ciò non voglio assolutamente negare le matrici altre, anzi, reputo che solo conoscendo da dove si proviene si può imbastire un dialogo produttivo con un altro da te che sa altrettanto bene dal dove arriva. Ad esempio io capisco benissimo gli italiani del sud, i russi, gli islamici che sanno di esserlo, cioè che non hanno tradito il loro essere, i loro archetipi, le loro credenze, perché, da parte mia, mai ho tradito il mio essere. Da ciò scaturisce la mia curiosità nei confronti dell’altro. Da ciò nasce il piacere di conoscerlo sempre meglio”.
Oltre che scrittore e poeta, lei è anche pittore e critico d’arte, questa varietà di linguaggi e interessi culturali le conferisce una patente di intellettuale a tutto campo, dandole la possibilità di guardare alla realtà da un osservatorio privilegiato attraverso più angoli visuali. Alla luce di questo, qual è la sua lettura del mondo di oggi, soprattutto per quanto riguarda lo stato delle arti figurative e della letteratura? Qual è il loro futuro e cosa lei auspica in merito?
“Non sono ottimista. L’Europa e in particolare l’Italia stanno precipitando in caduta libera sotto infiniti punti di vista, e ciò si riflette pesantemente su ogni tipo di disciplina espressiva. La rivoluzione in atto, quella definita del Tecnologico Avanzato, sta velocemente segando le gambe a tutto ciò che è patrimonio ‘artigianale’. Le culture avanzanti non ci stanno dando tregua e noi non siamo in grado di tenere testa a quegli urti che stanno giungendo qui dai quattro angoli del pianeta. Si risponde o arroccandosi sterilmente oppure tramite un lassismo globalistico generalizzato. Non esiste una via di mezzo. Non si capisce che solo avendo coscienza, conoscenza di sé stessi si può dialogare con gli altri esseri umani. Qui abbiamo i soldi e la pancia ancora piena, ma sempre più manca la cultura, manca l’elevazione culturale per poi trasformare tale benessere in bello e in bene. Infine siamo ignoranti. Siamo ricchi, pingui e ignoranti, e ciò è l’anticamera della fine”.
Quanto ai suoi progetti, a cosa sta lavorando attualmente? E a quando il suo prossimo romanzo? E’ lecito chiederle di anticiparci qualcosa?
“Di recente è uscita la mia traduzione dell’Esodo biblico che ho fatto per l’editore Raffaelli di Rimini. Un lavoro che mi ha preso per oltre un anno. Una magnifica esperienza perché ho ficcato le mani in quello che è il libro per antonomasia da cui sgorga la nostra tradizione. Adesso, sempre per l'editore Raffaelli, sto traducendo la Genesi. E, a breve, dovrebbe uscire un mio nuovo romanzo in cui, appunto, tratto della storia della mia famiglia in relazione alla Romagna, dove poi la mia gens dimora da oltre cinquecento anni”.
Un dipinto di Gian Ruggero Manzoni
Nessun commento:
Posta un commento